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Relazioni Tesi e Saggi

 

 

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PAVIA

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN PSICOLOGIA

 

 

 

 

 

 

COPPIE E GENITORIALITA’

NUOVI ASSETTI

 

 

 

 

 

 

 Relatore :

Chiar.mo Prof. Marco FRANCESCONI

 

Correlatore :

Chiar.ma Prof.ssa Daniela SCOTTO DI FASANO

 

 

Tesi di Laurea di

Claudia CAVOTO

 

 

 

 

 

 Anno Accademico 2003 - 2004

 

                                              

 

 

 Claudia Cavoto

 

 

INDICE

 

 

INTRODUZIONE ......................................................................................... 4

 

 

 

PRIMA PARTE

IDENTITA’

 

 

CAP. 1 ............................................................................................................. 11

IDENTITA’ MASCHILI E FEMMINILI ................................................... 11

1)     Uomini e donne: problemi aperti ..................................................... 11 

2)     Evoluzione del complesso edipico .................................................. 15 

2.1) Nella bambina ................................................................. 15

2.2) Nel bambino .................................................................... 16

3)     Tramonto del Complesso Edipico .................................................... 17

4)     Identità femminile: divenire madre .................................................. 22

5)     Identità maschile: il “terzo polo” ..................................................... 30

6)     Conclusioni ........................................................................................ 33

 

 

 

SECONDA PARTE

DAL SINGOLO ALLA COPPIA, AL MATRIMONIO

 

 

CAP.1 .............................................................................................................. 36

DA UN “IO” AL “ NOI” .............................................................................. 36

1)     Dal singolo alla coppia....................................................................... 36

2)     La scelta del partner .......................................................................... 40

3)     Verso il matrimonio .......................................................................... 45

4)     Il matrimonio: Quando? .................................................................... 47 

4.1) Il matrimonio come scelta ............................................ 47

4.2) Sposarsi oltre i trenta .................................................... 49

5)     Visibilità del matrimonio .................................................................. 51

6)     L’influenza intergenerazionale: tra legame e distanza .................... 52

7)      “Si per ora” ........................................................................................ 57

8)     Area della consapevolezza ................................................................ 61

9)     Identità maschile e femminile nel matrimonio ............................... 64

10) L’equilibrio amoroso nel matrimonio ............................................ 70

 

 

TERZA PARTE

LE FAMIGLIE

 

 

CAP.1 .............................................................................................................. 74

NUOVE FAMIGLIE ..................................................................................... 74

1)     Come si diventa famiglia ................................................................... 75 

2)     La famiglia tradizionale ..................................................................... 77 

3)     “La sfera familiare”............................................................................ 79 

4)     La famiglia al plurale ......................................................................... 81 

5)     Le famiglie di fatto ............................................................................ 82

5.1) Famiglie di fatto e i diritti ............................................. 84 

6)     Chi vive da solo .................................................................................. 85 

7)     Con un solo genitore ......................................................................... 87 

8)     Le famiglie ricostruite ...................................................................... 89 

8.1) Le difficoltà linguistiche nelle famiglie ricostruite ............... 90

 

 

 

CAP. 2 ............................................................................................................. 94

RELAZIONI FAMILIARI ............................................................................ 94 

1)     Relazioni all’interno della famiglia .................................................. 94 

2)     Cambiamenti strutturali e ruoli nel nucleo familiare ..................... 98

 

 

 

QUARTA PARTE

IL RUOLO EDUCATIVO E CONTENITIVO

DELLA FAMIGLIA

 

 

CAP. 1 ............................................................................................................. 104

LA FAMIGLIA: QUALE CONTENITORE OGGI?.................................. 104

1)     Relazione coniugale e ruolo genitoriale .......................................... 104

2)     Le funzioni emotive della famiglia .................................................. 107

3)     Responsabilità genitoriale ed educazione dei figli ......................... 110

4)     I genitori della nostra epoca ............................................................. 113

5)     Educazione maschile e femminile ................................................... 114

6)     Il figlio “essere” di parola ................................................................. 116

7)     I bambini sono cambiati e gli adulti? ................................................ 118

 

 

 

 

QUINTA PARTE

OLTRE IL MATRIMONIO

 

CAP.1 .............................................................................................................. 124

SEPARAZIONE E DIVORZIO .................................................................... 124

1)     La conclusione di un rapporto .......................................................... 124

2)     Oltre il divorzio: essere genitori sempre ........................................ 129

3)     Continuità genitoriale ........................................................................ 133

 

 

 

CONCLUSIONI ............................................................................................. 135

 

 

 

BIBLIOGRAFIA ........................................................................................... 138

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Nella mia tesi ho esposto il concetto di circolarità che ogni individuo sperimenta nell’acquisire la propria identità, in relazione all’evoluzione dell’individuo e della famiglia nella nostra epoca.

L’individuo nella famiglia d’origine acquista la sua identità, poi si immette nella società come singolo con specifiche caratteristiche, e generalmente sceglie poi il partner con il quale costruire un nuovo nucleo familiare.

Questa tesi è articolata in cinque parti: l’acquisizione dell’identità sessuale, la scelta del partner e il matrimonio, la nascita della famiglia e il suo cambiamento nel tempo, il suo ruolo contenitivo ed educativo, infine il divorzio, che è ormai una realtà tangibile ed evidente nell’universo famiglia.

Nella prima parte della tesi, ho illustrato l’argomento dell’identità individuale, del divenire uomini e donne, analizzando le diversità nel tempo.

Nel passato le figure maschili erano “ponti” tra la società e la famiglia, mentre le donne erano relegate a compiti domestici.

Nella nostra epoca, invece, l’emancipazione femminile ha cambiato i ruoli sociali e quelli familiari.

In questa parte viene anche sviluppata l’importanza dell’evoluzione del complesso edipico, per l’acquisizione dell’identità sessuale, nel divenire uomini e donne.

Oggi le identità maschili e femminili sono cambiate. La donna, più emancipata, occupa luoghi, spazi e tempi che prima non le erano concessi. La donna oggi, realizzata sotto diversi punti di vista, trascura, anche conseguenze delle biotecnologie, il proprio essere nella sfera della maternità. Nella nostra epoca si presentano esempi estremi di donne che non sperimentano la sessualità come atto procreativo, ricorrono all’aborto, oppure a donne che lasciano trascorrere il tempo biologico fino al limite, facendo ricorso poi a tecniche di riproduzione artificiale per poter soddisfare il desiderio di maternità.

Anche la figura maschile, prima unico legislatore nella famiglia, oggi è modificata. Gli uomini oggi, più attenti al loro aspetto, meno coinvolti nelle scalate professionali, tendono a collocarsi in un nuovo universo familiare, dove svolgere incarichi attivi e aiutare la moglie nei compiti domestici.

E’ d’importanza fondamentale che queste nuove identità, in continua espansione nella nostra epoca, non danneggino l’equilibrio della triade, escludendo (o collocando nel posto sbagliato) un suo componente, poiché questo influenzerà l’evoluzione di identità future.

Nella seconda parte, ho citato il mito platonico delle due metà del soggetto, introducendo l’argomento della ricerca dell’individuo dell’anima gemella, con tutte le problematiche che l’innamoramento e la vita di coppia comportano: un disinvestimento narcisistico verso il proprio sé, e la possibilità di sofferenza per un mancato risarcimento da parte del soggetto esterno. Dall’individuo si passa alla vita di coppia, dove fondamentale è che il “noi” sia supportato da due “io” stabili e, come dice Marco Francesconi (2004): “E’ necessario che ogni individuo abbia raggiunto una “struttura” psichica, sufficientemente stabile da non incorrere in “liquefazioni” in presenza dell’altro; sufficientemente elastica da potersi adattare all’altro senza perdervisi né colonizzarlo”.

In alcuni casi la vita di coppia diventa difficile da costruire perché l’individuo è troppo concentrato su di sé e perché la paura di soffrire, o di una delusione, diventa intollerabile, come nel racconto di Elias Canetti Auto da fé, e nell’omonima canzone di Franco Battiato.

Solo una coppia stabile può proseguire la sua strada verso il matrimonio e nella costruzione della famiglia.

Nella nostra epoca, però, si presentano casi in cui il matrimonio riveste un ruolo diverso rispetto al passato. Ci si sposa per essere e fare felice l’altro e anche per proseguire la tradizione dei genitori, oppure per accontentare la/il compagno/a. Un altro aspetto del matrimonio, che influenza anche la famiglia in generale, è l’estensione di questa scelta nel tempo, ci si sposa sempre più in età avanzata, per problemi legati allo studio, al lavoro, e, in alcuni casi, per paura di fare un passo troppo grande, così si “schiacciano” i tempi e si rischia di superare il limite. 

Il matrimonio rende l’unione della coppia visibile, iscrive le due singole identità come coniugi nel sociale.

Con il matrimonio, si sperimenta anche la realtà dell’influenza transgenerazionale, in positivo perché le esperienze del passato dei componenti la coppia possono essere introdotte come bagaglio culturale nella vita di coniugi, in negativo quando i neosposi faticano a lasciare il nido materno e prolungano il rapporto simbiotico con la famiglia d’origine senza mai rendersi indipendenti.

Il matrimonio rischia, nella nostra epoca, di essere, sotto certi aspetti, preso alla leggera, penalizzando così la costruzione di una famiglia stabile e duratura nel tempo. Il “sì” pronunciato al momento delle nozze può risultare solo temporaneo, un “sì, per ora” ( Silvia Vegetti Finzi, 1992).

Parlando del cambiamento dell’identità maschile e femminile si osserva come queste modificazioni alterino l’equilibrio matrimoniale rispetto al passato: “Le diversità tra uomo e donna, determinate dalla storia e dalla cultura, si intrecciano poi nel matrimonio con valori e disvalori propri delle singole vite. La diade coniugale non è costituita da due angeli; ciascuno riveste nel mondo una precisa collocazione etica, sociale, economica, culturale”( Silvia Vegetti Finzi, 2001).

Nel matrimonio moderno i ruoli non devono essere rigidi, ma la parità e la divisione dei compiti familiari deve essere, soprattutto dopo la nascita di un figlio, essenziale per il progredire armonico della famiglia.

Nella terza parte, nel primo capitolo ho esplorato l’evoluzione della famiglia con le sue nuove pluralità, e analizzato le nuove dinamiche familiari, riconoscendo dietro ogni possibile forma l’importanza della conflittualità del complesso edipico, dove le vicende familiari esprimono, nella scena privata, il dramma di tutti.

Una famiglia, intendendo quella tradizionale, è l’evoluzione della coppia coniugale, che accoglie nella diade un terzo.

Le modificazioni sociali verificatesi alla metà del nostro secolo (l’industrializzazione, il lavoro delle donne, la nuova identità femminile, la parità coniugale, la diminuzione dei matrimoni e delle nascite, l’aumento delle separazioni e dei divorzi, la nascita dei figli fuori dal matrimonio) in un certo qual modo hanno alterato la composizione tipica della famiglia.

In questa parte viene anche sottolineata l’unicità della famiglia come luogo di relazione, analizzando il tema di “sfera familiare” che, nella nostra epoca, è in continua evoluzione e rischia di diventare troppo fragile ed evanescente.

Esistono famiglie di fatto, dove il matrimonio è scartato come scelta, famiglie unigenitoriali, che esistevano anche in passato ma erano soprattutto legate a condizioni di sventura (come la morte di uno dei coniugi), mentre oggi appartengono a realtà diverse: ragazze madri, separazioni, nascita di un figlio fuori dal matrimonio.

Le famiglie ricostruite, nuove realtà della nostra epoca, sono composte da una coppia sposata o non, con o senza figli, dove almeno uno dei partner proviene da un precedente matrimonio, o da un’unione di fatto. Questa nuova realtà fonde due nuclei familiari preesistenti, dove è importante non perdere né mischiare i ruoli delle figure genitoriali a quelli dei nuovi compagni dei genitori.

Nel secondo capitolo, si parla delle relazioni degli individui all’interno della famiglia. Il nucleo familiare è composto da individui che hanno un loro assetto psichico, un’organizzazione inconscia, una narrazione passata, tutti aspetti individuali ma plasmati in un contesto di gruppo quale è la famiglia. La famiglia deve essere riconosciuta come una “rete di relazioni fantasmatiche” (M. Ciambelli, R. Gentile, 1993), e bisogna riconoscere, come sottolinea Eiguer, che è composta da organizzatori inconsci promotori del suo funzionamento: la scelta d’oggetto, il Sé familiare, i fantasmi condivisi. Ogni individuo assimila valori, regole, modi di vivere nella famiglia legati alla sua esperienza.

Si assiste nella nostra epoca a cambiamenti radicali, come l’allontanamento dal nucleo familiare di uno dei genitori, la composizione di nuclei “multiparentali”, dove trovare la giusta posizione risulta più complesso. E’ importante che quale che sia l’assetto  strutturale della famiglia o il nome che gli viene dato, i ruoli, soprattutto quelli genitoriali mantengano confini stabili, né troppo rigidi né troppo debole: questo l’argomento della quarta parte.

Nella quarta parte, viene sviluppato l’argomento della famiglia, come contenitore, oggi. Con la nascita del figlio la coppia diventa a pieno titolo una famiglia, ma questo implica la capacità dei coniugi di responsabilizzarsi nel prendersi cura di un terzo individuo. Diventare genitori racchiude maggiori responsabilità e implica la capacità da parte della coppia di trovare un equilibrio adatto alla triade familiare, creando così un’alleanza genitoriale capace di sostenere il figlio come un contenitore nelle varie fasi della vita.

Seguendo le linee guida della teoria di Meltzer e Harris (1983), esistono nella famiglia delle funzioni emotive, genitoriali normali (generare amore, infondere speranza, contenere la sofferenza depressiva, pensare) e in contrapposizione le loro forme perverse (suscitare odio, seminare disperazione, trasmettere ansia, creare bugie e confusione), lo sviluppo comporta perciò della sofferenza.

Il ruolo educativo e contenitivo che le figure genitoriali devono svolgere è un ruolo continuo, che non può mancare in nessuna fase della vita del bambino.

E’ importante che al bambino vengano dati tempi e luoghi funzionali a permettergli di poter interagire adeguatamente con i suoi genitori, ma forse la frenesia della vita moderna limita il tempo e per una relazione genitore bambino ci si ritaglia troppo poco (o niente).

Forse i genitori della nostra epoca dovrebbero essere meno accondiscendenti con i propri bambini, e più presenti per loro, perché forse le continue richieste dei figli, nella maggior parte dei casi soddisfatte, nascondono desideri più profondi, non sempre percepiti dai genitori, troppo impegnati nel lavoro e nella loro vita.

Nella quinta parte, parlo del tema della separazione e del divorzio. Essi rappresentano la rottura di un rapporto, che porta con sé problematiche irrisolte della coppia. Forse nella nostra epoca i divorzi e le separazioni sono in continuo aumento perché, le nuove coppie hanno grandi difficoltà nella costruzione di un “noi”, visto che i soggetti sono molto concentrati sull’Io.

Il divorzio deve essere interpretato come un processo dinamico durante il quale avvengono cambiamenti, che potrebbe acquistare anche caratteristiche positive se si impara dell’esperienza.

Oltre al divorzio, qualunque separazione comporta trasformazioni per tutti i componenti della famiglia, compresi i figli, anche se molto piccoli.

Il discorso della continuità genitoriale è di fondamentale importanza anche, e soprattutto, nei casi di separazione, dove per certi aspetti il ruolo educativo viene a mancare perché gli adulti sono troppo concentrati a superare questo momento. E’ importante che i genitori in questa fase siano sempre presenti e promotori di verità per il bambino, che non è né sordo né cieco ma in grado di percepire i cambiamenti che avvengono attorno a lui.

La famiglia è cambiata, per via dei suoi componenti, poiché i tempi, i modi e le posizioni sono mutate, si sono evolute, ma, per accettare e sviluppare al meglio queste situazioni, ogni componente maturo (i genitori)  deve dare il meglio, prima all’interno della propria famiglia, e poi verso l’esterno, per garantire al bambino il luogo migliore dove poter crescere ed acquisire un’identità stabile, sicura e non frammentata. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

IDENTITA’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAP. 1

IDENTITA’ MASCHILI E FEMMINILI

 

1.     UOMINI E DONNE: PROBLEMI APERTI.

 

«Cosa debbono pensare gli uomini e le donne della loro mascolinità e della loro femminilità in questo ventesimo secolo nel quale tante delle nostre idee hanno bisogno di essere rinnovate? Abbiamo forse addomesticato troppo gli uomini e negato il loro naturale spirito d’avventura vincolandoli a macchine le quali dopo tutto non sono che fusi e telai?Abbiamo forse sviato le donne dalla vicinanza ai loro figli, insegnando loro a cercare un’occupazione invece che le carezze di un bimbo, una carriera sociale in un mondo in cui si lotta per far strada piuttosto che un posto sempre uguale presso un focolare acceso? Educando le donne come uomini abbiamo commesso qualcosa di disastroso per le une e per gli altri, o abbiamo fatto un passo avanti nel compito ricorrente di perfezionare la natura umana originale?»[1].

 

Domande forse scontate ma che, nel nostro tempo, sembrano acquisire valore fondamentale nel percorso relativo al divenire uomini e donne. Da sempre le grandi civiltà si sono basate sulle distinzioni sessuali, da una parte gli uomini come parte attiva nella vita sociale e “ponti” di comunicazione tra macro (la società) e micro (la famiglia) mondo e, dall’altra, la donna, colei che è connessa, nell’immaginario, alle cure della prole e agli obblighi della vita familiare.

Il riferimento sociale è sempre stato relativo all’uomo, basti pensare che di generazione in generazione l’unico ad essere tramandato è il cognome paterno che, con il matrimonio (anch’esso d’origini maschili), la donna non conserva, mentre il bambino che nascerà sarà battezzato con il nome dei padri. Si è tramandato così, a discapito dell’essere femminile, un ordine delle generazioni sociali sotto il segno di un unico sesso, quello maschile.

 

«Nota Morino – ricordando la tradizione per cui i segni onomastici erano scelti per tramandare i ricordi ad una donna (per le donne) o di un uomo (per gli uomini) venuti prima in famiglia – che, se per il sesso maschile nome e cognome si uniscono in un modo in cui, in quanto al genere, non c’è esistenza, per quello femminile attraverso il cognome “si stabilisce un’appartenenza che riconduce sempre al padre (…) o a quel successivo sostituto del padre che è il marito.  Il coesistere, sulla stessa linea, di una genealogia femminile e di un’appartenenza agli uomini fa sì che, quanto al genere, il nome complessivo di una donna sia misto, racchiudendo traccia della madre e del padre al contempo”».[2]

 

 Nella nostra epoca, invece, si sta assistendo ad un “velato” cambiamento, ad esempio, nota Scotto di Fasano, con  madri che desiderano trasmettere il proprio cognome, includendosi così in un passaggio generazionale fino a poco tempo fa maschile.

Questo desiderio si presenta in casi differenti, sia il bambino nasca da una unione eterosessuale, in coppie lesbiche o in assenza di un compagno.  La volontà della donna, di riconoscere socialmente il bimbo, può essere un aspetto importante per l’analisi del vissuto femminile nell’età contemporanea, dove lei richiede un ruolo più dinamico e giuridicamente attivo. Infatti, il bambino si forma come un “individuo sociale” solo quando viene iscritto all’anagrafe, tramite il cognome, e proseguirà il suo cammino nel percorso scolastico come membro della comunità. Il desiderio femminile di tramandare il proprio nome potrebbe nascere dalla volontà di accompagnare il figlio oltre le mura materne.

Un aspetto menzionato prima, riguardo alla trasmissione del cognome, ma inizialmente trascurato, è il desiderio femminile di poter generare un bambino senza la vicinanza di un partner, fantasia che allontana la figura maschile dal concepimento. Queste donne eliminano, così, l’uomo a monte, non solo nella crescita del bambino, ma nella sua stessa generazione, essendo il padre diventato fantasmaticamente superfluo grazie a un modo particolare di utilizzare la procreazione medica assistita. Con questa visione, si nota, a mio parere, una sorta di “egoismo generativo”, dove tutto è femminile e nel quale il maschio non viene più considerato.

 

«Tali fenomeni, pur non avendo carattere di diffusione capillare, testimoniano però, a mio parere, di una svolta che sta svolgendosi “in sordina” nel registro dell’identità femminile, in grado quindi, di conseguenza, di trasformare quello della maternità»[3].

 

Nel passato, i bambini che crescevano senza padri al loro fianco e che venivano presentati, nella società, solo con il cognome materno, rivestivano i panni di bimbi abbandonati, non desiderati, nati da rapporti non consentiti. L’essere donna o l’avere solo il nome della donna era negativo, non un privilegio o una scelta ma solo una disgrazia.

 Così, anche nelle fiabe, la figura maschile (padre e amante) appare sempre come una figura predominante e con significati buoni; Cenerentola, che perde il padre in tenera età, resta priva d’ogni privilegio sociale ed è costretta a vivere con la matrigna, che “abusa” di lei e del titolo paterno, salvo trovare poi riscatto in una figura maschile, quella del principe che, grazie alla sua posizione sociale, sposandola, le dona la libertà.

Ancora, la Bella addormentata nel bosco, Aurora, sarà salvata dal Principe Filippo, ma le uniche figure presenti per il cambio generazionale sono i padri dei due sposi, la madre, figura femminile, non è considerata evidentemente parte attiva nel passaggio generazionale.

In tal modo, l’identità femminile è stata tramandata come “messa in ombra” da quella che è una visione più “sociale” dell’individuo.

Queste mansioni, dove il maschio è collocato nel sociale e la donna nell’ambiente domestico, che sembrano avere prospettive molto differenti, in realtà sono comuni a entrambi i ruoli, poiché la donna, pur ricoprendo in un passato recente una posizione apparentemente non attiva nel suo “corpo sociale” (la famiglia), rivestiva però un ruolo più che decisivo e attivo: l’educazione e la formazione di uomini e donne destinati a diventare i pilastri del nuovo gruppo sociale, erano compiti suoi. Per questo motivo il ruolo della donna, benché non attivo, come lo é oggi ad esempio nel lavoro retribuito, era determinante per lo sviluppo della civilizzazione futura.

Le conquiste femminili degli ultimi anni, nella vita sociale, non devono però a mio parere creare un’ombra, oscurare la dimensione della sua femminilità e dell’identità di madre, in particolare nell’educazione del bambino.

La distinzione tra uomo e donna, sebbene fondata su diversità strutturali e biologiche, oggettive, rischia di dare una visione restrittiva di quella che può essere considerata la distinzione d’identità e di compito sociale tra maschile e femminile.

 

«La posizione femminile viene per tanto a configurarsi come sottomissione e regolazione violentemente e necessariamente indotte. Freud la individuerà nella sua ricognizione d’inconscio, traducendola però in termini di “passività”, nel tentativo di neutralizzare ciò che resta insondabile nella differenza sessuale».[4]

 

In quest’ottica, si può percepire il simbolo femminile come passivo nei confronti di pulsioni, scelte, identificazioni, attribuendo al maschio solo funzioni attive. Freud di fatto considerava la libido come attiva e perciò associata al  maschile «perché la pulsione è sempre attiva anche quando si è posta una meta passiva»[5].

Da questa valutazione si può estrapolare che la donna, per acquistare un’identità femminile, deve rinunciare sia ad essere come il maschio sia al pene, sostituito dal bambino, inizialmente vissuto come dono immaginario del padre, ma nel suo futuro di donna, con un uomo al fianco e la nascita del figlio reale, da “scoprire” come componente di attivazione della propria femminilità.

 

 

2.     EVOLUZIONE DEL COMPLESSO EDIPICO

 

2.1 NELLA BAMBINA

 

«I due desideri, di possedere un pene e di possedere un bambino, permangono fortemente investiti nell’inconscio, aiutando in tal modo la femmina a prepararsi alla sua futura vita sessuale. [6]»

 

L’acquisizione dell’identità femminile, tramite il superamento del complesso edipico, risulta più complessa rispetto al compito richiesto al bambino, poiché la bimba deve allontanarsi dal suo primo oggetto d’amore, quello materno, poiché esso rappresenta nella fase edipica l’ostacolo per raggiungere l’unione con il padre, il quale poi le donerà in fantasia il bambino, sostituto del pene mancante. Si tratta per lei di una brusca rottura del rapporto simbiotico con il primo oggetto dell’amore, il seno, l’unico bisogno e la sola meta libidica all’inizio della vita per entrambi i sessi.

Per la bambina lo spostamento libidico verso un nuovo oggetto, il padre, corrisponde a una “scissione” dal corpo materno, mentre il complesso edipico viene abbandonato lentamente perché il dono del padre, di fatto, non arriva mai.

 

 

        2.2 NEL BAMBINO

 

«…L’impostazione ambivalente verso il padre e l’aspirazione oggettuale esclusivamente affettuosa riferita alla madre costituiscono per il maschietto il contenuto del complesso edipico nella sua forma semplice e positiva»[7]

 

Più semplice risulta ( per Freud) il superamento dello stadio edipico per il bambino, che non deve disinvestire dell’amore il primo oggetto, la madre, e può identificarsi con il padre.

Questa condizione, dove entrambi i genitori sono “tollerati”, si sviluppa parallelamente al rafforzarsi delle pulsioni verso la madre, che fa sì che la figura paterna sia percepita come un ostacolo per il raggiungimento della meta materna e nei cui confronti la relazione assume una coloritura ostile.

Formatasi in tali termini la condizione edipica, il bambino mette in atto un “incontro- scontro” con il padre, il quale rappresenta l’uomo da combattere per poter conquistare il posto al fianco della madre, ma al tempo stesso, è una figura temuta per la paura della castrazione, della perdita narcisistica del pene, realtà data per certa perché considerata già attuata nella bambina, che gli appare come colei che è stata evirata.

Così, la figura paterna diventa un modello nel quale identificarsi per poter continuare in maniera non incestuosa ad amare la madre. Nel superamento del complesso edipico, insomma, il bambino utilizza la figura maschile prima come rivale combattuto per poter ottenere il suo posto ma poi, quando capisce che tale obbiettivo non è realizzabile, come un modello in cui identificarsi per crescere.

 

3.     TRAMONTO DEL COMPLESSO EDIPICO

 

«Benché il complesso edipico sia vissuto individualmente dalla maggior parte degli esseri umani, esso è pur sempre un fenomeno predisposto dall’ereditarietà e in base a un programma preordinato deve scomparire allorché subentra una fase successiva dello sviluppo»[8]

 

Fenomeno centrale del periodo sessuale dell’infanzia, il complesso edipico tramonta per via delle delusioni amorose cui si va incontro e degli insuccessi dei propri desideri. Nel maschio, cio accade anche per la paura di una punizione narcisistica (complesso di castrazione).

Nella fase fallica, per il bimbo, la scoperta del proprio organo corrisponde alla frequente manipolazione del genitale stesso. Gli adulti, principalmente la madre, non approvano tale comportamento, da qui le minacce dell’evirazione, provenienti da figure femminili ma sostenute da ombre maschili, quali il dottore e il padre. La paura della castrazione (dal maschietto associata più all’incontinenza notturna che alla masturbazione), si manifesta non solo con le parole materne “non toccarti che se no lo facciamo tagliare dal dottore”, ma soprattutto, con la visione del sesso femminile, che rende “reale” la minaccia.

Nel complesso edipico il bambino può avere due tipi di soddisfacimento fantasmatico, uno attivo (positivo), sostituendosi alla figura paterna al fianco della madre, e uno passivo (negativo), in cui fantastica di sostituirsi alla madre. Entrambe queste forme portano alla minaccia di evirazione nel: primo caso, si costituisce come un castigo per via del desiderio di occupare un posto non suo e come conseguenza della lotta con il padre, nel secondo caso sarebbe un presupposto, perché si diventa femmina e così si perde il pene. Questi desideri vengono abbandonati perché la perdita in questione diventa insopportabile.

Gli investimenti oggettuali così sono abbandonati e sostituiti dall’identificazione. L’autorità paterna s’introietta e costituisce il nucleo del Super-io, il quale assume dal padre la severità e il divieto di incesto, che si trasmette in tal modo nelle generazioni. Gli investimenti oggettuali libidici e le tendenze libidiche connesse al complesso edipico vengono così desessualizzate e sublimate.

 

 «Il Super-io è quindi l’erede del conflitto edipico. Esso, tuttavia, non si forma tanto a immagine dei genitori quanto a immagine del loro Super-io, rappresentando così la continuità delle generazioni, la persistenza di norme e di valori al dì là dei mutamenti intenzionali individuali.»[9]

 

Con il superamento del conflitto edipico il bambino passa allo stadio successivo, quello di latenza, il cui relativo equilibrio verrà interrotto dai cambiamenti biologici introdotti dalla pubertà, durante la quale gli impulsi sessuali genitali si intensificano dando maggior rilievo alle esperienze erotiche, che porteranno alla scelta dell’oggetto eterosessuale nell’età adulta.

«Il complesso edipico è dunque nella femmina il risultato finale di una più lunga evoluzione. Lungi dal venir distrutto dall’influsso dell’evirazione, ne costituisce al contrario il prodotto, si sottrae alle forti influenze avverse che nel maschio agiscono su questo stesso complesso in modo distruttivo, e addirittura, molto spesso, non viene nella femmina superato affatto».[10]

 

Partendo da questa osservazione di Freud, nel caso della bambina il complesso di evirazione prepara il complesso edipico e non lo distrugge. Con il confronto sessuale, la bambina diventa vittima “dell’invidia del pene” e si rifiuta di accettare la sua mancanza, vissuta come evirazione. Per lei, l’unica colpevole dell’insufficienza del sesso femminile è la madre, che viene allontanata per rifugiarsi nel padre, il solo dal quale è secondo lei possibile avere il pene-bambino. L’amore verso la madre si attenua dopo la scoperta che anche lei è evirata, il che permette di abbandonarla come oggetto d’amore.  Freud attribuisce al distacco materno molteplici cause di ostilità:

 

 «La madre ha trascurato di fornire la figlia dell’unico vero genitale, non l’ha allattata abbastanza, l’ha costretta a dividere l’amore materno con gli altri, non ha mai realizzato tutte le aspettative amorose della figlia, e infine, dapprima ha eccitato la sua attività sessuale e poi l’ha vietata».[11]

 

Si ritrova nella bimba uno stadio primordiale, definito da Freud preedipico, composto dal legame unico della diade madre-bambina, che comprende un terzo polo, il padre, che ricopre la figura del rivale.

Le emozioni e i sentimenti provati dalla bambina nello stadio preedipico verso la figura materna saranno proiettati nel nuovo ed esclusivo rapporto con il padre. Più intenso sarà lo stadio preedipico, nella bambina, più forte sarà per lei il complesso edipico.

In entrambi gli stadi, la bambina fantastica sul bambino da generare, poi, verso i tre anni, gli impulsi libidici investono la figura paterna in un rapporto incestuoso.

Nella femminuccia però viene a mancare la causa scatenate del tramonto del complesso edipico, l’evirazione, poiché essa ne costituisce l’inizio. E’ ipotizzabile quindi che la bambina rimanga in questo stadio per un tempo prolungato. In ogni caso, con la conquista della sua identità e del suo Super –io tramite l’abbandono dei suoi desideri (il pene e il bambino che il padre non le dona), passerà nello stadio di latenza, dove gli impulsi sessuali vengono sublimati e ritrovati nella pubertà e in adolescenza verso oggetti esterni alla triade famigliare. Con il tramonto del suo complesso la bambina può acquisire la femminilità tramite l’identificazione con la madre.

Anche Melanie Klein dà grande importanza al complesso edipico e al suo superamento, ma lo colloca in un momento dello sviluppo anteriore a quello individuato da Freud.

 

 «Secondo me il conflitto edipico si instaura nel bambino dal momento in cui egli comincia a provare sentimenti di odio verso il pene paterno e a desiderare di congiungersi genitalmente con la madre distruggendo il pene del padre che immagina sia in lei incorporato. Ritengo che i primi impulsi genitali e le prime fantasie genitali, nonostante si presentino durante una fase che è dominata dal sadismo, costituisca tuttavia nei bambini maschi e femmine, i primi stadi del conflitto edipico, in quanto soddisfano i requisiti che definiscono il complesso edipico». [12]

 

 La Klein pone infatti maggior attenzione agli stadi più precoci dell’infanzia e fa risalire il complesso edipico alla presenza contemporanea di figure fantasmatiche “buone e cattive”. Partendo dalla dualità delle pulsioni di vita e di morte, che si proiettano entrambe su un unico oggetto, il seno materno, l’oggetto viene percepito come scisso in“buono”, quello che nutre, e “cattivo”, quello che si ritira; questa operazione viene effettuata dal bambino per rendere sopportabili le emozioni generate dagli oggetti, inizialmente parziali, e successivamente totali, la madre e il padre.

Così facendo il bambino proietta il suo amore verso l’oggetto buono e la sua aggressività verso quello cattivo. Nella teoria kleiniana, sono considerate fondamentali due posizioni, quella schizoparanoide e quella depressiva. La prima pone l’accento sul meccanismo di scissione dell’oggetto, fondamentale per permettere all’Io di emergere dall’indistinzione originaria e di organizzare la realtà esterna secondo categorie (opposte ma necessarie) “buone” e “cattive”.

Il passaggio dall’oggetto parziale a quello totale segna il superamento di questa posizione e l’inizio di quella depressiva. Questa si costituisce verso il quarto-sesto mese di vita del neonato. In tale posizione la scissione tra oggetto “buono” e “cattivo” si attenua perché il bambino scopre che l’oggetto amato e odiato è lo stesso, per cui l’angoscia si trasforma da persecutoria a depressiva per il pericolo fantasmatico di perdere o distruggere l’oggetto amato. Il superamento di tale angoscia avviene con l’inibizione dell’aggressività e con la riparazione.

«Dovrebbe a questo punto essere chiaro il fatto che il termine “posizione” ha un significato differente da quello di “fase”, implicando il primo il fatto che ciascuno di noi oscilla per tutta la vita tra posizione schizoparanoide a quella depressiva, mentre dovremmo avere superato una volta per tutte le tre fasi evolutive»[13] 

Il complesso edipico non viene da M. Klein collocato nella fase fallica ma è introdotto nelle fasi pregenitali, dominate da componenti sadiche, durante le quali il bambino/a può investire sentimenti di amore e di odio verso entrambi i vertici del triangolo edipico. Si forma così un Super-io primitivo, che risulta particolarmente duro, caratterizzato da aspetti persecutori, legato ai primi investimenti oggettuali e alle prime identificazioni.

Superando il complesso edipico, il bambino abbandona i desideri di onnipotenza libidica, promuove impulsi eterosessuali e consente di accedere a un Super-io più maturo.

In conclusione, dall’evoluzione e dalla risoluzione del complesso edipico dipendono le scelte dell’oggetto d’amore che verrà, l’accesso alla genitalità (che non dipende solo dalla struttura biologica ma anche da differenti processi di maturazione nelle fasi di sviluppo pulsionali), la struttura della personalità e, in particolare, del Super –io e dell’Ideale dell’io, tutte scelte che condizioneranno la vita futura dell’uomo e della donna.

 

4.     IDENTITA’ FEMMINILE: DIVENIRE MADRE

                                                                                        

«La maternità è un orizzonte del vissuto femminile che va al di là della potenzialità riproduttiva pura e semplice [14]».( D.Messina).

 

Questa frase può essere un punto di partenza per una riflessione più ampia su quello che è lo spazio femminile nella nostra società, che si trova a fare i conti con un’evoluzione–involuzione delle modalità dell’essere donna.

Tramite il progresso tecnologico, (negli anni sessanta per mezzo della diffusione degli anticoncezionali e negli anni ottanta con la fecondazione artificiale), e con l’emancipazione delle donne dopo la seconda guerra mondiale, l’immaginario femminile ha subito modificazioni.

Nel passato le uniche strade che una donna poteva percorrere erano quella di moglie-madre o quella di una vita da sola.

Nel mondo d’oggi, invece, si trovano diversi spaccati d’identità femminile, chi pensa solo al lavoro e alla carriera, chi pensa di costruire una famiglia e, ancora, donne che trovano solo nella sfera della maternità un appagamento personale.

Oggi grazie alla scienza, che sembra aver dato alla donna un completo controllo del proprio corpo, si è arrivati ad uno squilibrio tra sessualità e riproduzione: se la pillola distoglie le donne dalla visione di un corpo che “genera”, la fecondazione dissocia la riproduzione dalla sessualità.

 

 «Optare per un rinvio significa prendere atto che esistono almeno tre temporalità, una esterna, costituita dalla scadenze sociali (relazioni  affettiva, studi, lavoro, casa); un’altra interna al corpo, indotta dalle scadenze biologiche (età feconda, possibile insorgenza di malattie debilitanti) e infine una terza, trasversale rispetto all’esistenza individuale, rappresentata dalle pulsioni istintuali a procreare.»[15]

E ancora «La procreazione è stata infatti racchiusa all’interno della vita intima e privata della coppia o più ancora del soggetto, che  si sente l’unico detentore del potere generativo».[16]

 

La decisione della donna di diventare madre deriva dall’armonizzazione di queste temporalità, che nella nostra epoca risultano complicate da gestire, perché le esigenze sociali sembrano destabilizzare la loro armonia. Il continuo rinvio alla maternità costringe la donna a ritrovarsi in situazioni limite, dove il tempo non può più essere prolungato.

 

«Un bambino può essere rimandato all’infinito perché tanto lo si può fare quando si vuole, eludendo i limiti imposti dalla natura»[17]

 

Se da una parte la scienza riesce a protrarre la capacità generativa anche oltre l’età feconda, dall’altra rende cieche alcune donne davanti alla fertilità. Forse l’"inconsapevolezza" del proprio corpo come mezzo di riproduzione è determinato dall’introduzione dei metodi contraccettivi, che rendono dissociate la sessualità dalla nascita del figlio. L’incapacità di vivere il corpo femminile come un possibile contenitore materno, rende la donna “ignorante” del suo corpo.

 

«Le cosiddette “maternità non volute” sono state propriamente “sessualità non pensate”»[18].

 

Sono sempre più presenti, nelle cronache giornalistiche, episodi nei quali le donne non riescono ad essere madri, a contenere mentalmente il bambino, come nel caso di abbandono di neonati, di aborti “autogestiti” o ancora, nelle situazione più estreme, di infanticidi.

In tutte queste situazioni, quando viene chiesto alle madri il perché del loro gesto, la risposta più comune è “non volevo il bambino” come viene naturale chiedersi sia possibile che donne acculturate che vivono in una società civilizzata, dove esistono tanti metodi contraccettivi, si riducano all’aborto, all’abbandono all’uccisione di creature indifese? Sembrerebbe che il così detto istinto materno, che si può considerare l’aspetto fondamentale dell’evoluzione per tutti i mammiferi, nella specie più evoluta stia svanendo.

La maternità, in questi termini, rimane il "non pensato della nostra epoca"[19].

Queste modificazioni scientifiche e sociali hanno cambiato il modo di intendere la funzione procreativa.

Come dice Vegetti Finzi in un suo scritto: «Le gravidanze indesiderate, in quanto irruzioni dell’inconscio, esorbitano in un certo senso, dalle nostre possibilità di previsione e di controllo, che potranno eventualmente subentrare in un secondo tempo con il ricorso all’aborto volontario»[20]

Un ruolo particolare gioca l’inconscio, che tramite “dimenticanze veniali”(ibidem), permette il realizzarsi del desiderio di maternità.

 

«Paradossalmente la potenziale fecondità del corpo femminile, il perpetuo rinnovarsi delle risorse, costituisce più una possibilità di “incidenti” che di successi. All’interno di una grammatica della sessualità, che ammette la fecondazione come rarissima eccezione, molte gravidanze si configurano come lapsus o meglio come “atti mancati”».[21]

 

Il desiderio materno, in un’epoca dove tutto può essere programmato, si fa  strada tramite decisioni coscienti della donna oppure tramite oblii; la dimenticanza del contraccettivo, calcoli sbagliati del ciclo mestruale, diventano le strade inconsce per rimanere incinta, per dare “voce” al desiderio materno che risiede in ogni donna.

Le donne moderne, in alcuni casi, sottovalutano i nove mesi della gravidanza, considerandoli solo come un periodo di passaggio, fisicamente non si limitano, vivono indiscriminatamente la loro vita, (lasciano tardi il lavoro, guidano fino all’ultimo girono, non si lamentano della salute, fanno tutto come se niente fosse).  La svalutazione di questo periodo lascia un vuoto nell’esperienza della donna, che non vive un momento della vita unica ed irripetibile.

 

«Tanto più che la mancata elaborazione dell’attesa rende poi difficile la funzione materna»[22].

 

Queste donne, dopo la nascita del bambino, avranno maggiori difficoltà nell’abituarsi alla vita “simbiotica” con lui. Quando si diventa madri i bisogni, le necessità del bambino devono avere priorità assoluta, la giornata della nuova mamma dovrà ruotare attorno agli orari del bimbo, questo passaggio sarà più difficile per quelle donne che già nei mesi di gravidanza non si sono abituate alla sua presenza. Le donne della nostra epoca sembrano vivere la maternità come un “spazio” troppo stretto, soffocante, infatti, in alcuni casi, preferiscono il ritorno anticipato al lavoro, per poter ritrovare spazi e tempi migliori per loro.

 

La necessità del controllo, da parte della donna, non si limita al concepimento del neonato, ma si estende alla gravidanza e al parto, e continua anche dopo la nascita del bambino.

 

«La differenza che intercorre tra la riproduzione istintiva delle femmine animali e la complessa e contraddittoria esperienza di quelle umane ci mostra quanto ci siamo allontanate dal corpo, dal suo sapere. Una delle maggiori rimozioni operate dalla nostra cultura mi appare quella che ci sottrae ogni rappresentazione interiore della gravidanza e del parto»[23].

 

L’ incompetenza materna, solo in alcuni casi estrema, come negli abbandoni o negli infanticidi, è allargata a tutte le donne per quanto riguarda la gestione della gravidanza fino alla nascita del bambino, proseguendo nel suo allevamento. In passato, quando non esistevano strutture ospedaliere complete e con reparti specializzati per le donne in attesa, tutto si svolgeva in casa con l’aiuto e il sostegno di altre donne, nelle cui mani erano collocate la capacità e le competenze procreative.

Questo aiuto non era limitato solo alla parte meccanica del parto, ma era esteso agli aspetti più intimi della nuova madre, che era aiutata ad acquisire un "grembo psichico"(Vegetti Finzi S., 1999 ibidem) con il quale accogliere il nuovo bambino. Oggi, invece, la donna non è più aiutata in rapporto alla gravidanza dal punto di vista emotivo, ma solo da quello fisiologico.

Così, "abbandonata" come individuo di una società troppo impegnata, la donna si ritrova sola. Forse proprio questo essere sola ha portato la nuova mamma a dipendere dai medici specialistici anche per le nozioni più semplici, legate ad un istinto materno che sembra svanire.

Anche dopo la nascita, periodo in cui a livello medico tutto diventa più semplice, si scatenano mille dubbi su come nutrire, lavare, vestire il proprio bambino. Anche ora alla donna sono consegnate nozioni tecniche basate su date, tempi, orari, ma ci si dimentica sempre di un sostegno più mirato alla sua maturazione e dei processi inconsci che deve imparare ad affrontare dopo il parto, compreso quel senso di vuoto che deve essere rielaborato.

Il bambino sembra non appartenere più solo alle madri ma a un insieme di persone che se ne occupano, il ginecologo, l’ostetrica, le infermiere, il pediatra, tutte figure che gestiscono le parti mediche ma non le sole essenziali per la sua maturazione.

Come rovescio della medaglia, si possono trovare donne che sarebbero madri ideali o, meglio, pronte mentalmente alla presenza di un figlio ma con problemi biologici, quali ad esempio l’infertilità, che non hanno la possibilità di realizzare a pieno la propria femminilità.

 

Nella società sono presenti più che mai spaccati di identità femminile in trasformazione, dal figlio a tutti i costi, ottenuto in età sempre più matura con tecniche di procreazione assistita, a donne dotate di potenzialità riproduttive ottimali, ma votate ad una “coazione”, quasi patologica, a ripetere l’aborto.

Questa analisi fa notare un aumento delle donne con una capacità materna relegata solo all’aspetto biologico, sottratta a quello mentale.

 

«Il conflitto tra essere dentro e avere dentro è particolarmente acuto nel corso nel corso della gravidanza, quando l’identificazione con il feto riporta la donna nella propria madre, presentando una sincronicità tra l’essere contenuta e il contenitore che può risultare rassicurante così come perturbante. In questi frangenti la storia del rapporto con la madre diviene, per ogni donna, il banco di prova della sua disponibilità»[24].

 

Questa inadeguatezza nell’acquisire un’identità femminile completa può essere connessa alle origini del rapporto materno al quale è ricollegabile lo sviluppo femminile, che avviene cercando nel rapporto con la madre la “giusta distanza”, quell’equilibrio psichico e fisico che possa permettere l’identificazione in lei senza essere annullati.

Fin dall’infanzia il sesso femminile viene percepito dalla bambina come una “cavità vuota”, invisibile, ma che rappresenta il luogo dell’essere madre, lo spazio fin dall’infanzia viene percepito come luogo della nascita.

In quell’epoca si sviluppano giochi di relazioni materne, «Un precocissimo gioco della bambola del tutto ignaro della figura paterna, un altro nel quale la bambina assume la posizione della madre trasformandola in figlia, infine la fantasia condivisa con il coetaneo, di donare un bambino alla madre».[25], dove la bambina esercita, in forma attiva, i ruoli di una relazione, quella con la madre, nella quale lei è relegata alla passività.

Nel gioco la bimba dà forma al suo corpo femminile, alla pienezza che risiede in lei, con un cuscino sotto il vestito, “riscatta la gelosia” che la divide dal corpo materno, vissuto come caldo e pieno di tesori, in particolare il seno, desiderato dalla bambina come un oggetto essenziale che dona nutrimento. Nella finzione del gioco, si ritrovano situazioni d’onnipotenza, dove il bambino fantastico viene autogenerato dal ventre, nell’immaginario femminile infantile luogo del tutto, che reintegra la pienezza “perduta” del fallo non posseduto.

 

«Oggi che le donne sono orfane di un dio-lei, di dei-loro, di dee-donne, di madre divina di figlie, di genealogia spirituale, sono pronte a tutto pur di affermare un pò di autonomia, a rischio di un’ulteriore perdita di identità femminile. Così, fare un figlio senza un uomo rappresenterebbe, per alcune, il massimo della libertà. Ciò equivale come sempre a definirsi in rapporto all’altro sesso e non in rapporto a sé; equivale a pensarsi senza l’altro e non a pensare a sé, a me-lei, a noi e con noi loro.

Inoltre un bambino senza un uomo resta pur sempre un bambino. La donna vi si ritrova ancora e sempre madre»[26].

 

Nella realtà sociale, grazie alle nuove tecnologie mediche, il gioco fatto nell’infanzia, in cui la nascita di un “fantomatico” figlio non includeva la presenza del maschio e rendeva la bambina autrice indiscussa del suo desiderio, è realizzabile, donando così al gesto impossibile un alone di realtà. Con i nuovi metodi di procreazione è possibile ipoteticamente realizzare un desiderio d’onnipotenza dove l’unico spazio “necessario” è il grembo femminile, che esce dalla sua invisibilità e diviene unico e fondamentale mezzo per ottenere il bambino.

Si ritorna all’origine del mito, nel quale l’onnipotenza infantile può ritrovare fantasie inconsce sulla generazione che propone antichi fantasmi propri delle narrazioni mitologiche.

 

«Il mito, attraverso le storie di idee che generano da sole e di un dio eternamente bambino, ci ha permesso di dar forma alla fantasia partogenetica infantile e di declinarla  nei tempi del conflitto edipico»[27].

 

5.     L’IDENTITA’ MASCHILE: “TERZO POLO”

 

«Forse sarebbe più prudente dire “con i genitori”, in quanto padre e madre prima che sia conosciuta con esattezza la differenza fra i sessi e la mancanza del pene, non sono valutati differentemente». [28]

 

 Si tratta della nota aggiunta da Freud nel 1923 a L’Io e l’Es tramite la quale egli sottolinea l’importanza nella strutturazione dell’identità personale, di entrambe le figure genitoriali.

L’identità, sia essa maschile o femminile, è il risultato delle più o meno felici integrazioni di vari livelli: quello biologico, il senso psicologico di appartenenza, quello dei vincoli sociali e dei ruoli culturali, quello delle pulsioni e quello dei comportamenti sessuali.

La figura maschile deve essere guida della famiglia non solo a livello finanziario ma anche pedagogico e morale, diventando il “terzo polo” della relazione familiare.

Dopo la nascita del figlio, il padre rischia di diventare per qualche tempo uno “straniero” nella coppia, poiché il nuovo arrivato si colloca tra le braccia materne e lo relega in un posto d’ombra.

Il padre diventa così come un polo “esterno” rispetto alla diade madre- bambino, ma non estraneo, anzi ad essa necessario in quanto introduce il contatto con la realtà esterna rivestendo, al contempo, il ruolo di contenitore per la moglie nei momenti di frustrazione e componendo, al momento opportuno, una relazione triangolare nella quale introduce una funzione normativa, di guida e di limite primitivo nel rapporto fusionale tra madre e bambino.

La funzione maschile è essenziale per l’acquisizione da parte del bambino di vincoli alla sua onnipotenza. I padri devono trasformare il rapporto tra madre e figlio (di tipo simbiotico) in un rapporto “solido”, dove esista una “tridimensionalità” nella quale gli elementi della famiglia possano vivere e riconoscersi senza mai confondersi, come avviene nelle forme “liquide” (Francesconi, 2004) , in cui il rischio è di disperdersi o mescolarsi.

 

«Come nella cosmogonia la mente stessa deve potersi configurare non come un’entità omogenea, compatta, atemporale e soffocante, ma caratterizzata da volumi abitabili, tridimensionali, dotati di uno spazio dove sia possibile accogliere elementi psichici esterni in un proprio mondo interno mantenendo abbastanza fermi i “contorni”di ciascun individuo, riconoscendone le differenze, le somiglianze senza confusioni. E’ questo il livello che consente l’apprendimento, le identificazioni mature, la capacità di sopportare le separazioni e le perdite e le condivisioni».[29]

 

L’uomo contemporaneo sembra aver apportato delle modifiche nella mascolinità, è diventato più attento all’aspetto esteriore e alla cura del fisico, arrivando, come estremo, anche a cure chirurgiche, sembra inoltre meno votato alla carriera rispetto al passato, forse per la presenza di nuovi rivali, le donne. Con tali comportamenti egli introduce un modo di essere tradizionalmente femminile. Questa modificazione maschile va allargata anche al ruolo domestico, dove sono sempre più presenti mariti che aiutano o vengono delegati dalle mogli alle faccende domestiche, alle cure dei figli.

La figura paterna nella società occidentale, non ricopre più la veste di “padre padrone” o di “uomo nero” utilizzato solo come “tutore della legge”, ma è diventata una figura nella famiglia; tende a compensare i vuoti lasciati, in alcuni casi, dalle donne impegnate nel lavoro.

Anche nelle rappresentazioni cinematografiche e nei cartoni la figura paterna viene raffigurata con caratteristiche femminili, come se nell’evoluzione i ruoli familiari venissero per così dire amalgamati.

Si pensi al Libro della giungla, famoso romanzo di Rudyard Kipling (The Jungle book, [30]1894) riprodotto come cartone animato da Walt Disney, dove il piccolo cucciolo d’uomo (Mowgli) disperso nella foresta sarà salvato da una figura maschile, la pantera Baghera, che porterà il bambino in una famiglia di lupi.  Quando Mowgli diventa grande i saggi del branco (figure maschili) decidono di bandirlo dalla giungla per poterlo far crescere come uomo e proteggerlo dalla tigre Sercan. Baloo, un orso bruno, incontra il bambino nella foresta e lo cura come un “mammo”. Nel finale Mowgli sconfigge la tigre (figura terrificante) e lascia il padre adottivo per raggiungere una graziosa ragazza che lo porterà al villaggio. In questa rappresentazione si possono trovare sia spunti del romanzo edipico sia la posizione materna di una figura maschile che permette al bambino di crescere e dirigersi verso la strada della maturità.

In un film recente, Mrs Doubtfire, (1993), viene messa in scena la raffigurazione della trasformazione di un padre infantile, non affidabile nel lavoro e nell’educazione dei figli, in un ottimo “mammo”. Nel film Robin Williams ricopre il ruolo del padre non buono che, dopo il divorzio con la moglie, perde tutto, anche i tre figli. Dopo questa privazione il padre cambia identità e, comparendo in abiti femminili, diventa una governante, espediente utilizzato per poter stare vicino ai suoi figli.

Si tratta di una trasformazione non solo esteriore ma che modifica anche il comportamento e l’autorità, riuscendo egli a gestire nel migliore dei modi tutte le mansioni di casa e dell’educazione dei figli. Trasformatosi in un “mammo”, riesce a svolgere con efficacia il ruolo di contenitore per tutta la famiglia. Scoperto dal figlio, in maniera perturbante, mentre fa la pipì, è costretto a rivelare la propria identità (maschile di padre). Perdonato per la sua “insufficienza paterna” viene reintrodotto nel nucleo famigliare, ma non come marito. Finale non con un classico lieto fine, ma con una sua simbologia, dove il dovere genitoriale sopravvive  anche in situazioni di divorzio della coppia.

 

 

6.     CONCLUSIONI

 

Nella società moderna, si alternano visioni d’identità maschili e femminili simili e contemporaneamente molto diverse rispetto al passato. In alcune situazioni, i ruoli si possono considerare invertiti o solo momentaneamente scambiati: la donna è sempre più emancipata e presente nel lavoro, l’uomo sempre più attento alle esigenze familiari e meno autoritario.

Esisteranno ancora coppie con ruoli identici al passato, dove le decisioni sociali sono prese solo dal marito e i figli vengono educati solo dalla madre, ma oggi si può comunque notare un’evoluzione, un completamento reciproco, a mio parere, di entrambe le figure.

E’ però di fondamentale importanza, in entrambi gli universi, la capacità di gestire l’espansione accettandone i limiti, non intaccando la stabilità che serve a uomini e donne per le identificazioni future, soprattutto se l’evoluzione dei ruoli viene introdotta nel romanzo familiare e questo va a danneggiare l’equilibrio della triade, escludendo o collocando al posto sbagliato un  suo componente.

 

«E’ quando le donne si immettono nel sociale con metodi  maschili, in “giochi” in cui sono pedine di scopi che le travalicano, che la ricchezza femminile è destinata ad andare perduta»[31].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

DAL SINGOLO ALLA COPPIA, AL MATRIMONIO

 

 

 

 

 

 

 

 

CAP. 1

DA UN “IO” AL “NOI”

 

 Il vero flagello, "la fine del mondo" è la paura di amare: si ha paura dell'amore. Dall'alto al basso della scala sociale si vorrebbe essere felici, si vorrebbe godere, ma non soffrire. Che miserabili, che disgraziati! e soprattutto come sono malati tutti questi poveri evirati del sentimento.  Tutto ciò che è forte li turba e li inquieta!

 [Rouault]

 

1.     DAL SINGOLO ALLA COPPIA

Nel Simposio di Platone si trova il mito delle metà:

 

«I generi degli uomini erano tre, uomo, donna, androgino (…) Il maschio aveva tratto la sua origine dal sole, la femmina dalla terra, il terzo dalla luna.(…) Zeus disse: “credo di avere a disposizione un mezzo che consenta agli uomini di esistere, li taglierò ciascuno in due “disse” cosicché da un lato saranno più deboli e dall’altro saranno più utili a noi, perché saranno maggiori di numero. E camminarono dritti su due gambe.(…) Allora dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, cercava di unirsi a lei.»[32]

 

Questo mito narra che in origine, si consideravano l’uomo e la donna un unico essere, felice, completo, senza distinzioni sessuali. Ma gli dei, in particolare Zeus, arrabbiati decisero di tagliarlo in due metà perfette. Da allora l’uomo cerca la sua metà per completarsi e ritrovare la felicità perduta.

In chiave contemporanea, la metà è l’anima gemella, che proprio per il suo significato di equivalenza rappresenta la parte mancante. Ma per poter trovare la giusta metà dobbiamo prima conoscere come è fatta la “nostra parte”.

 

«Occorre costruire un “io” prima di convergere in un “noi”.[33]

 

Questo per sottolineare che la prima relazione da prendere in considerazione è la relazione con noi stessi. E’ importante abituarsi a relazionarsi con se stessi per poter in un futuro costruire le basi di una solida vita di coppia. La classica frase “se ti senti bene con te stesso stai meglio con gli altri” è fondamentale soprattutto in un rapporto a due.

La relazione con gli altri ricopre grande importanza anche negli scritti di Freud, dove la si analizza in rapporto alla strutturazione dell’Io:

 

«Normalmente nulla per noi è più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto ad ogni altra cosa».[34]

 

L’individuo nella sua unicità non soffre, si sente al sicuro, ma riconosce comunque la necessità di vivere con gli altri, nonostante il fatto che oggetti esterni pericolosi possano danneggiare la sua struttura interna. Eppure l’individuo ha bisogno di relazioni al di fuori di sé, nonostante che (soprattutto nella fase dell’innamoramento) ci si ritrovi esposti alla fragilità della struttura dell’Io, il quale abbassa le proprie bariere per acquisire amore da un nuovo oggetto esterno.

 

«Al culmine dell’innamoramento, il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attesa dei sensi, l’innamorato afferma che Tu e Io sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se fosse davvero così».[35]

 

Ciò può accadere proprio perché spesso, se il narcisismo eccessivo non lo impedisce, tendiamo a vedere il buono, il bello, il perfetto, il ben fatto, altrove: in quel libro, in quel maestro, in quella istituzione. Da una realtà individuale (forse meno dolorosa per il nostro Io), si passa ad una realtà di coppia, dove l’onnipotenza narcisistica è limitata per dare spazio ad un nuovo oggetto esterno che ci gratifichi.

 

«Chi ama ha perduto, per così dire, una parte del proprio narcisismo e può riconquistarlo solo se è amato a sua volta».[36]

 

La ricerca dell’ uomo o della donna ideali deriva dal desiderio di riscoprire  sentimenti vissuti in età infantile. Lo sviluppo dell’Io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e nello spostare la libido su un Io ideale. Quindi in una relazione di coppia l’Io si priva di una quota degli investimenti libidici per reinvestirli sul’oggetto amato; questa perdita però presume un ritorno libidico dall’esterno. L’amato risarcirà la perdita libidica dell’Io donando il suo amore e garantendo un bilanciamento tra le due polarità.

Per un buono sviluppo nel rapporto di due persone bisogna ricevere tanto quanto si dà, raggiungendo un equilibrio:

 

«…la decisione di “mettersi in coppia” nasce spesso come reazione all’inautenticità degli scambi, come risposta alla solitudine affettiva».[37]

 

Da un altro punto di vista, la paura della solitudine ci costringe a vivere insieme con gli altri e ad accettare i sacrifici e le rinunce pulsionali che ciò comporta. Tutti abbiamo bisogno di un compagno che ci comprenda, ci aiuti, che sappia compensare i nostri difetti e valorizzare i nostri pregi; allora scegliamo quella “metà” che ci sostiene di volta in volta nel decifrare le istruzioni della vita quotidiana nella comunità. Così, l’essere umano trascorre parte del tempo a vivere in coppie basate sull’amore, sull’amicizia o solamente per sull’evitamento della solitudine.

Il termine coppia viene dal latino "copula", da cui anche copulare, copulazione, in altre parole, la coppia come entità è la più semplice relazione; ed è nella coppia, in ogni accoppiamento, che c'è il bene e il male. In ogni coppia esistono sentimenti d’amore-odio; e ogni relazione, quanto più è investita, tanto più contiene queste dinamiche. Il contrario dell'amore è l'indifferenza. C'è la situazione piena d’emozioni da una parte, all'opposto c'è una situazione senza emozioni, cioè di indifferenza; e infatti noi possiamo provare odio proprio per quelle situazioni che sono affettivamente molto investite.

Sembra che nel nostro tempo, per poter sopravvivere sia necessario appartenere a qualcuno per non sentirsi perso e al tempo stesso inglobato in un mondo dove il tutto uniforma tutti.

Fondamentale per poter costruire uno stabile rapporto di coppia: «E’ necessario che ogni individuo abbia raggiunto una buona “struttura” psichica, sufficientemente stabile da non incorrere in “liquefazioni” in presenza dell’altro; sufficientemente elastica da potersi adattare all’altro senza perdervisi né, viceversa colonizzarlo; sufficientemente contenta di sé, per non dover divenire preda dell’invidia o perdere ogni propria caratteristica, ritenendola insignificante e di poco conto»[38].

 

2.     LA SCELTA DEL PARTNER

 

«Il rinvenimento dell’oggetto è propriamente una riscoperta»[39].

 

La scelta del partner di solito non è casuale; essa avviene infatti all’interno di un processo molto complesso legato ad esperienze e identificazioni passate.

La persona prescelta è simile od opposta alla figura parentale di riferimento, ma anche legata alle modalità relazionali del bambino con l’adulto “significativo” e basata sul modello delle relazioni genitoriali.

L’oggetto d’amore può corrispondere dinamiche inconsce non solo a del passato ma anche del presente, come possibilità di soddisfare le necessità e i desideri, di costituire un rafforzamento dell’Io, di soddisfare il bisogno di intimità e di cure, di superare le angosce e i dolori della vita.

I versi, che seguono sono tratti da una canzone di Franco Battiato, Auto da Fè.

 

«Si è fatto tardi sulle nostre esistenze/ e il desiderio tra noi due è acqua passata/ davvero tu non c’entri niente/ è solo colpa mia/ mi sono accorto tardi/ che tutto quello a cui tenevo ti era indifferente/ scivolava via/ siamo lontani distanti/ ti parlo e non mi senti.

E’ sceso il buio sulle nostre coscienze/ e ha reso apocrifa la nostra relazione,/ vorrei innestare il moto dell’indifferenza/ e allontanarmi da te/. Faccio un Auto da fè dei miei innamoramenti/ un Auto da fè/ voglio praticare il sesso senza sentimenti.

E mi piaceva camminare solo/ per sentieri ombrosi di montagna/ nel mese in cui le foglie cambiano colore/ prima di addormentarmi all’ombra del destino(…)»[40]

 

L’argomento presentato nella canzone si può collegare all’amore e alla vita di fidanzati e amanti che si lasciano, che separano le loro esistenze perché il desiderio che li teneva uniti si trova ormai nel passato. Dopo la separazione, il protagonista ritorna ad uno stato “idilliaco” di tipo individuale associato ad attività piacevoli (la camminata), in una stagione, (l’autunno), di cambiamenti. Nella canzone l’uomo si ricolloca in uno stato primordiale dove l’innamoramento torna ad avere caratteristiche di tipo narcisistico, dove l’Io è sopra a tutti e a tutto dal momento che nel rapporto con gli altri non si è trovata soddisfazione, come se si dicesse  “m’innamoro di me stesso così non corro più il pericolo di una disillusione”. Quello che forse mancava nella coppia citata, è la complicità, la passione, la confidenza. L’insoddisfazione dell’Io induce, come in casi di questo tipo, il soggetto a rifugiarsi in un rapporto unico con se stesso, dove niente e nessuno può nuocergli o deluderlo.

Nel racconto, Auto da fè, scritto da Elias Canetti in lingua tedesca nel 1935 con il titolo Die Blendung (L’accecamento), si narra di un professore, Peter Kien, l’uomo “tutto testa e niente corpo”, un intellettuale che vive di libri, ossessionato fin dall’infanzia del bisogno di sapere “tutto” e di leggere “tutto”, che finisce per vivere solo, con rari contatti sociali. La sua casa ha le pareti “foderate”da libri, e diventa per lui l’unico luogo sicuro dove rifugiarsi. L’unica persona che riesce a tollerare è la governate anziana che lo accudisce. Il protagonista si è costruito un “contenitore narcisistico” il cui universo è composto esclusivamente da oggetti inanimati ma fondamentali per il suo ego e la sua vita:

 

«Libri e libri si rovesciano dagli scaffali sul pavimento. Lui li trattiene con le sue lunghe braccia. In silenzio, perchè non lo sentano fuori, porta nell’atrio una pila dopo l’altra e tutte insieme le accatasta contro la porta di ferro.  E mentre ancora lo spaventoso fracasso gli manda in frantumi il cervello costruisce con i libri una poderosa trincea. L’atrio si riempie di volumi(…). Davanti allo scrittoio il tappeto è in fiamme(…).Sale fino al sesto gradino della scala, sorveglia il fuoco e aspetta. Quando finalmente le fiamme lo raggiungono ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita.»[41]

 

Nelle ultime frasi del libro si osserva come la figura paradossale del professore, ossessionato dai suoi libri e da se stesso, preferisca perire con loro barricandosi nella sua casa.

In entrambe le citazioni, i protagonisti non riuscivano a sopportare un rapporto di coppia, nel primo caso lo si rifiuta perché passati nella fase di disillusione, dove tutto quello che brillava non brilla più.

Nella canzone si parla di una stagione nostalgica, l’autunno, che evidenzia il lutto presente al termine di un rapporto. La delusione per la conclusione di una storia deve essere una condizione transitoria, il lutto deve venir elaborato, cosicché l’individuo possa di nuovo vivere sentimenti positivi e riaprire il suo cuore a un nuovo amore. In un processo naturale, come il mutamento delle stagioni, tutto varia, si può passare da una fase di completa tristezza dopo la rottura con una persona cara, elaborazione, fino a ritrovare un nuovo equilibrio come individuo per ricostruire un nuovo rapporto. Anche nelle poesie diversi autori utilizzano l’autunno come tema collegato a sentimenti di dolore e malinconia.

Nella lirica di Paul Verlaine:

Canzone d’autunno

 

  Lungo il lamento

viene del vento

autunnale,

e d’un languore

m’ingombra il cuore

grave,uguale.

 

  Pallido e anelo,

quando dal cielo

 batte i tocchi,

sui dì m’incanto

perduti,e il pianto

m’empie gli occhi

 

 Ecco, e via seco

il vento bieco

 mi trasporta;

me rimugina foglia morta.

                                            (Paul Verlain 1874).[42]

 

Nel movimento del simbolismo, di cui Verlain fa parte, l’ispirazione sorge dalla visione che ciascuno ha del mondo, perché la vera realtà non è quella che ci circonda, ma quella che nell’individuo si forma attraverso le impressioni che dalle cose reali riceve. Il poeta ascolta, così, attentamente il proprio Io, carico di pensamenti, ed esprime stati d’animo pieni di sfumature e penombre. In questa poesia viene riportata la tematica dell’autunno collegata  ad uno stato d’umore molto triste, si trovano parole quali lamento, pianto, e la poesia si conclude con la parola morte.

La stagione autunnale racchiude in sé un alone di nostalgia e di sentimenti cupi, ricollegabili ai sentimenti di una storia interrotta, ma come tutto si evolve anche la malinconia svanisce e lascia il posto ad una nuova stagione.

Nel secondo caso citato invece il rifiuto della relazione nasce a monte, la vita è migliore se goduta da soli, senza persone che possano danneggiare un Io fragile come quello del  protagonista.

Oggi la scelta del partner è libera, non vincolata a promesse famigliari, quando si sceglie un uomo o una donna si fa perché in quel momento le caratteristiche che si trovano nel nostro compagno sono esaurienti. Molte volte si sceglie quello che nella nostra società viene presentato come il meglio o il preferibile, così l’uomo dovrà avere potere, essere ricco con tanto successo, mentre nelle donne l’aspetto fisico, la gioventù sono i canoni prescelti.

Sostanzialmente, quando si sceglie un compagno si vuol trovare una persona che riesca in qualche modo a migliorare la vita. Quando si è innamorati tutta la realtà appare ovattata, meno cruda e dura. Ma il partner “giusto” è colui che rimane (e viene lasciato) al suo posto anche dopo la fase d’illusione tipica dell’inizio di un amore, paragonabile a uno stato simbiotico, quando ritornando al mito della metà perfetta di Platone, è come se le due parti tagliate si ricongiungessero. La coppia, se equilibrata, sarà in grado di affrontare le difficoltà della disillusione.

 

 

 

 

 

 

 

3.     VERSO IL MATRIMONIO

 

« “… quello della corretta distanza che deve instaurarsi tra due esseri, dal momento che proprio tale distanza condiziona la loro possibilità di condividere uno spazio comune, il loro reciproco accettarsi e la loro capacità di scambio”(Naouri, 1998, p.105).»[43]

 

Cercare di capire come e perché si forma la coppia, quali sono le modalità normali e quali le nascoste conflittualità che potrebbero, più o meno acutamente, comprometterne la continuità ed avere una conseguenza negativa nello sviluppo degli eventuali figli. La coppia non è ancora la formazione della famiglia, ma è certamente una fase importante della realizzazione del ciclo vitale che può essere influenzato da numerosi fattori: psicologici, sociali, culturali.

Ovviamente la coppia non è solo la semplice somma delle singole dinamiche intrapsichiche dei partners, ma luogo in cui vengono messi in gioco processi fondamentali, come la sicurezza, il riconoscimento dei bisogni e dei desideri reciproci, di valenze fantasmatiche narcisistiche.

Il legame tra due persone può essere “modellato” anche da pressioni sociali, condizionamenti economici, rapporti d’interesse e di potere. Tutti questi fattori vanno ad influenzare la costruzione e la rottura della relazione.

La coppia è un riflesso delle strutture in cui è immersa, non può essere considerata isolata dall’organizzazione sociale, comprese le conseguenti forze (coesive o disgreganti) che queste esercitano su di essa. Ogni individuo avverte dentro di sé in modo istintivo e insopprimibile l’assoluta necessità dell’amore, molte volte invece l’amore viene scambiato con il desiderio di essere amati.

 

«Quando e come una coppia si trasforma in una coppia di fidanzati?».[44]

 

Il fidanzamento, che dovrebbe rappresentare l’anticamera del matrimonio, si colloca nello spazio privato del rapporto a due, dove inconsciamente io e tu diventano una cosa unica, un “noi”. Anticamente, il passaggio da coppia amorosa a fidanzati ufficiali era stabilito da un contratto verbale tra le due famiglie d’origine, dove il padre concedeva al fidanzato la mano della figlia; oggi, il passaggio dalla coppia amorosa a fidanzati non è visibile fino al matrimonio.

La coppia d’innamorati (nella fase simbiotica del rapporto) sembra allontanarsi dalla realtà, in questo momento nulla sembra sbagliato, ogni scelta è appoggiata e condivisa.

Nella coppia ci sono due storie individuali, con comportamenti e vicende uniche che se da una parte la arricchiscono, dall’altra la portano in una sorta di continuo accomodamento essenziale per vivere bene.

Trovarsi in un rapporto d’amore comporta sforzi, umiltà, coraggio, che permettono alla coppia di fidanzati di poter progettare un legame (più o meno esplicito) verso un rapporto unico e sentito, almeno al momento, come indissolubile,  quale il matrimonio, che nella nostra epoca sembra ricoprire posizioni simili e al tempo stesso diverse rispetto dal passato.

Esistono però coppie che considerano superfluo rendere legale la loro unione, in quanto a loro dire un “foglio di carta” non serve a rendere l’amore più “vero”. Il matrimonio è visto da costoro solo come una scelta di facciata, e soprattutto come spreco di risorse economiche e d’energie. Le unioni che non seguono la classica strada del matrimonio possono vivere le altre scelte come conformiste, quasi attendendosi che siano questi casi a dover  motivare le loro scelte.

 

 

4.      IL MATRIMONIO: QUANDO?

 

Da questo titolo voglio dar conto di due presupposti del matrimonio oggi:

in primo luogo di come, anche nella nostra epoca, il matrimonio sia considerato un valore e una meta importante per la narrazione della propria storia, e, dall’altra, di come la decisione del rito nuziale si collochi sempre più in là nel tempo, nella storia individuale.

 

a)      IL MATRIMONIO COME SCELTA

 

«Come mai in tempi tardo­moderni - quando molti rituali sono ormai obsoleti - uomini e donne continuano ad organizzare cerimonie nuziali e a prendere, di fronte alla comunità, un impegno solenne che più nessun obbligo impone ?».[45]

 

Pur seguendo due strade, quella religiosa e quella laica, i valori del rito possono subire una rivalutazione.

Per tutte le persone credenti, il matrimonio è un’istituzione che riveste un valore divino da rispettare; il cammino che porta questi soggetti verso la strada dell’unione solenne è nella forma più religiosa, fondato su scelte condivise da entrambi, quali la verginità e la fedeltà.

Se nel passato sposarsi era significato di una maturità mentale e sessuale, sanciva il passaggio all’età adulta e la possibilità di costruire “legittimamente” una famiglia, ora questi valori sono scindibili dal matrimonio stesso.

Oggi sposarsi non ha lo stesso valore etico e legale che aveva nel passato. La scelta della vita coniugale, tra i giovani, sembra essere una scelta non tanto individuale e personale ma ricollegabile a “esigenze” transgenerazionali, “mi sposo così i miei genitori sono contenti” oppure a decisioni di una sola parte della coppia “la mia ragazza ci tiene tanto”. Sembra che sia più semplice, riguardo a quest’argomento, non appartenere ad una corrente di pensiero. Paradossalmente, la soluzione migliore sembra a molti quella di rifiutare il matrimonio; la persona che antepone questa soluzione la giustifica con più tenacia, pone ragioni più concrete rispetto a chi invece sceglie il matrimonio.

Inconsciamente, quale che sia la motivazione apparente, esistono sempre un desiderio, un’esigenza intima che probabilmente sfuggono anche al diretto interessato. Collocando la decisione matrimoniale al di fuori del sé, forse si fa una scelta di convenienza, ci si tutela prima che qualcosa di negativo possa accadere: adulterio, separazioni, divorzi.

Viviamo in una società dove fare delle scelte comporta aspetti negativi, mentre nell’astensione la persona non cade apparentemente in situazioni problematiche.

Particolari e significative di questo momento storico sono alcune rappresentazioni cinematografiche e alcuni spot pubblicitari. Negli ultimi anni il matrimonio è stato utilizzato come sceneggiatura in diversi film, per citarne solo un paio si pensi a commedie come Se scappi ti sposo o Il matrimonio del mio migliore amico. In questi trailers il matrimonio è rappresentato come decisione rimandata in eterno; nel primo film, Se scappi ti sposo, la protagonista Giulia Roberts è una donna che, colpita dalla “sindrome” della “coazione a ripetere”, ogni volta, ad un passo dall’altare (sempre con uomini diversi), scappa abbandonando, nel momento cruciale, la cerimonia.

Ancora più rappresentativa dei nostri giorni, a mio parere, è la pubblicità di una nota compagnia telefonica; questo spot, composto come una telenovela a puntate, inizia con una cena romantica dove lui decide di chiedere alla sua compagna di sposarlo ma lei, invece di dare una risposta, fugge. La prima parte si conclude con “se mi prendi ti sposo”. Nelle scene successive si vedono momenti dove lui la raggiunge, ma lei trova sempre un escamotage per scappare. Alla fine di ogni spot compare la scritta “vivere senza confini” (a livello pubblicitario serve a far capire la dimensione della copertura telefonica), ma mi pare un messaggio riconducibile alla vita e alle personalità che rispecchiano il “non limite” che caratterizza molti dei comportamenti odierni. Questo spot pubblicitario rappresenta a mio parere la fragilità personale della nostra epoca, dove i soggetti posti davanti ad una decisione che cambierà per sempre la vita, hanno momenti di titubanza, proprio perché non si è portati a mostrarsi artefici del proprio futuro.

A mio parere questo continuo scappare e rincorrersi è un po’ una caratteristica della velocità e del dinamismo, spesso fini a se stessi ma vissuti come valori nella nostra epoca. Il cammino deve avvenire con la collaborazione d’entrambi i coniugi. Sotto un altro aspetto, questa fuga può essere contrapposta alla decisione di sposarsi, come sintomo della paura di impegnarsi e di stabilire un legame “statico” con un unico individuo.

 

 

b)      SPOSARSI OLTRE I TRENTA

 

«Negli anni Cinquanta gli psicologi americani avevano individuato la sindrome del “nido vuoto”, quando i genitori ancora giovani restavano soli  nella famiglia, quello degli anni Novanta è piuttosto la sindrome del “nido pieno” perché nessuno ha più fretta di andarsene».[46]

 

La famiglia d’origine permette al giovane adulto di fissarsi in una condizione statica di completo benessere, in cui gli si garantisce tutto il necessario e spesso anche il superfluo, non permettendo così un sano allontanamento. Questa “staticità” familiare non consente la maturazione del figlio, che ha difficoltà a lasciare un luogo ben conosciuto (casa paterna), dove non gli manca niente, in direzione di uno spazio esterno (autonomia) dove regna l’ignoto. La realizzazione personale ed economica attraverso il lavoro sono mete sempre più lontane. Le professioni sicure hanno lasciato il posto a lavori temporanei, che non graniscono una stabilità nel tempo e manca la possibilità di rendersi economicamente autonomi. Questa inversione all’emancipazione rende rischiosa una vita indipendente e, soprattutto, limita la formazione di una forte identità nell’individuo, che lo aiuti a proseguire nel cammino sociale e nella costruzione di un solido rapporto di coppia.

Il matrimonio si sposta sempre più in là nel tempo, dopo che sono state sperimentate varie unioni e in contesti nei quali la vita del giovane non si stacca mai dal cordone ombelicale della famiglia di origine. Il percorso maturativo viene prolungato anche dal percorso di studi, che diventano necessari per poter ambire ad un posto di lavoro soddisfacente e ben retribuito, ma rendono avvicinabile la vita matrimoniale solo dopo i trent’anni (se si calcolano gli anni di studi, i possibili master, i lavori temporanei).Così, solo molto tardi se le cose vanno per il verso giusto, si raggiunge una stabilità che permetta progetti futuri, dove sia compresa la vita familiare. 

La costruzione delle famiglie in età avanzata apre, a mio parere, anche nuove problematiche, quale l’età ipotizzabile dei nonni del futuro, che, seguendo una logica cronologica, saranno troppo anziani per poter badare alla generazione di nipoti. Così, nel futuro, si rischia di perdere un “patrimonio” essenziale per il supporto delle nuove famiglie.

 

 

 

 

 

 

 

5.     LA VISIBILITA’ DEL MATRIMONIO.

 

Con il matrimonio, la coppia entra in un “luogo pubblico”, come ricorda Vegetti Finzi:

«Il matrimonio è, al tempo stesso, una decisione interiore, un’alleanza che si stipula con un’altra persona e con la sua famiglia, un impegno che si assume nei confronti di individui non ancora esistenti (figli che eventualmente nasceranno) ma anche un contratto sociale, un patto che si sottoscrive con la collettività». [47]

 

Il legame invisibile ed intimo che univa la coppia di fidanzati, ora è reso visibile con la scelta del matrimonio. La decisione interiore della coppia, al momento delle nozze, diventa una decisione aperta al giudizio di tutti.

La prima comunicazione sociale, che iscrive la coppia nella comunità, avviene tramite l’affissione delle pubblicazioni in comune, dove possa essere letta da chiunque.

Con il matrimonio, la coppia si ritrova nella dimensione della collettività, dimensione che in altre cerimonie è andata perduta.

In un paese, sia esso piccolo o grande, quando si vedono arrivare gli sposi su una macchina di rappresentanza, anche le persone non invitate ed estranee si fermano a guardare, si congratulano, commentano il vestito, l’età, la bellezza della coppia, come se tutto quello che riguarda la coppia, in quel giorno fosse di tutti.

Intorno al matrimonio si forma così un tipo di solidarietà, di compiacimento indiscriminato, si pensi alla carovana di macchine, di parenti e amici, che suonando assiduamente i clacson avvertono tutta la comunità che in questo momento sta accadendo qualcosa d’importante. Il matrimonio non cambia solo il vivere della coppia nello spazio ma anche nel tempo, unendo le tre temporalità, passato (il desiderio) presente (il matrimonio) futuro (la famiglia).

Più d’ogni altra festa il matrimonio, nel bene e nel male, chiama in causa la comunità e in essa la nuova coppia si colloca come nuova diade e nuova potenziale famiglia.

 

 

6.     L’ INFLUENZA INTERGENERAZIONALE: TRA LEGAME E DISTANZA.

 

«Per passare dalla condizione di esistere come oggetto a quello di vivere come soggetto dobbiamo trovare il nostro posto nella trama delle relazioni umane, riconoscere gli altri e ottenere il loro riconoscimento».[48]

 

Come c’insegna Freud, per acquisire un’identità e diventare soggetti bisogna percorrere il “cammino edipico” e identificarci nelle figure genitoriali, cammino che non è privo di difficoltà ed è denso d’investimenti emotivi fortemente coinvolgenti. Proprio nel “romanzo familiare” ogni individuo trova la definizione di sé. Lo schema, sul quale tutte le nostre relazioni future si baseranno, è di tipo triangolare (padre, madre, figlio). Così, tramite un percorso inconscio d’identificazioni, ci si dispone all’interno della famiglia d’origine come figli, sistemazione che permetterà nel futuro di costruire un rapporto d’amore maturo e di collocarsi nei ruoli di padre o madre.

Proprio dalla proibizione dell’incesto nasce lo stimolo alla creazione di una propria famiglia, velatamente è anche una promessa che viene fatta dai genitori: “vedrai, quando sarai grande diventerai anche tu mamma/papà”; si tratta di una promessa fatta nell’infanzia ma che viene anche riproposta nell’adolescenza (con le prime incomprensioni tra genitori e figli) con toni meno positivi “vedremo come ti comporterai quando tu sarai padre/madre”. Comunque, in entrambe le situazioni sembra che nella storia individuale il percorso sia già scritto, da figlio si diventi genitore. Costruire una famiglia allora è un modo per realizzare le promesse e i desideri inconsci fino a quel momento sublimati.

Il legame intergenerazionale è il processo di trasmissione di itinerari inconsci, di storie, di identità che la famiglia d’origine lascia al singolo individuo che costituirà un nuovo nucleo familiare.

In questo senso gli insegnamenti accumulati nella famiglia d’origine e l’aiuto che essa può dare alla nuova coppia, come supporto nei momenti difficili è fondamentale. Diventa importante che errori commessi in generazioni passate non vengano ripetute in quelle future.

La trasmissione attraverso le generazioni lasciano sensi di appartenenza e fondamenta sulle quali si instauri un nuovo asse ereditario.   

«La trasmissione non è un fenomeno passivo»[49]

Per trasmissione non si considera un passaggio passivo di informazioni ereditate, ma si devono considerare tutte le dinamiche che avvengono nei legami familiari, dai ruoli educativi e dagli esempi genitoriali che ogni individuo si ritrova nella propria vita. “Ogni trasmissione comporta: emissioni, ricezioni, trasformazioni, restituzioni ed integrazioni”. (Simona Taccani, 2002).

Trasmissione attiva, anche perché è il soggetto che interagisce, interpreta, completa i messaggi lasciati dai genitori, “cio che il figlio fa di ciò che i genitori a lui fanno”(Simona Taccani 2002). Il figlio nella relazione transgenerazionale non deve mai ricoprire funzioni passive, dove la donazione è priva dell’elaborazione.

La posizione di figlio che raccoglie ed elabora, deve essere accompagnata da quella di riuscire a costruire con le proprie forze (costituite dalla sua storia passata) un modello di vita futura.

Quando nasce una nuova coppia di sposi, il loro sviluppo dipenderà molto dalle vicende familiari passate, dalle abitudini, dalle fondamenta morali e dalle regole che facevano da base nel nucleo familiare d’origine. Tutte queste caratteristiche influenzano il comportamento dei singoli nella relazione; così le due famiglie d’origine, anche se non volontariamente o con la loro presenza fisica, influenzano i nuovi coniugi perché in ognuno di essi rimangono sedimentati a livello conscio e inconscio gli insegnamenti, i valori, le abitudini del passato.

Il legame con la famiglia d’origine e la sua storia segna la definizione individuale tra i soggetti, che grazie a questo legame possono costruirsi un proprio spazio nel quale crescere come individui, coppia, famiglia. Il legame simbiotico si deve allargare costituendo uno spazio di crescita personale.

 

«Per rappresentare lo spazio psicologico che delimita la famiglia e contiene i suoi processi di comunicazione, dobbiamo immaginarlo come due anelli concentrici: quello interno circoscrive il rapporto esclusivo della coppia coniugale, quello esterno delimita invece il gruppo familiare, con i suoi componenti presenti o futuri, dove si andranno a collocare i figli che nasceranno»[50].

 

Nella cerimonia nuziale, quando la figlia viene accompagnata all’altare dal padre e il figlio attende la sposa con la madre,  si rende visibile il passaggio generazionale tra la famiglia d’origine e quella che si sta creando.

Questo passaggio oltre ad essere “simulato” nella cerimonia deve anche realmente avvenire: bisogna separarsi dalla famiglia paterna per poter costruire un nuovo nucleo familiare, indipendente sia economicamente che mentalmente, libero di crescere e maturare anche grazie alle risoluzioni di problemi che nella vita di coppia possono e devono esistere.

Sarà fondamentale per i nuovi coniugi riuscire a trovare uno spazio intimo, proprio, dove distanziare le famiglie passate, che lentamente dovranno, a loro volta, “staccare il cordone ombelicale” per permettere ai figli di crescere e di maturare nel loro rapporto diadico. Per renderli indipendenti, bisogna diventare contenitori non “asfissianti”, rendersi “invisibili” a vantaggio della libertà del figlio, disponibili senza essere intrusivi; come una mamma buona ma non esageratamente buona, i genitori devono essere solo“abbastanza buoni”.

Questo distacco, necessario ma doloroso, comporta problematiche in entrambi i nuclei. Nel mondo contemporaneo, a mio parere, il “taglio” con le famiglie d’origine è più difficile per i maggiori impegni, i tempi ridotti (causati dal lavoro) e in parte per la pigrizia dei figli; per questi motivi è più semplice rifugiarsi dalla mamma per mangiare anche duranti i giorni feriali, si richiedere l’aiuto dei genitori per le faccende di casa o anche aiuti più tangibili, come quelli economici. La divisione dei compiti in entrambi i nuclei riduce le fatiche, ma la fusione della nuova con la vecchia famiglia può essere dannosa sotto molti aspetti; da una parte, permette che i figli continuino a vivere comodi nella loro identità di figli prolungando così in eterno il rapporto con il vecchio nucleo familiare, dall’altra ci può essere un’intrusione dei genitori nelle decisioni della nuova famiglia. I litigi così non rimangono nella coppia, ma diventano una discussione familiare ad ampio raggio; questo danneggia la nuova coppia, perché non le permette di prendere decisioni intime, di poter risolvere le situazioni problematiche nelle quattro mura. L’invadenza dei genitori è però giustificata dalla pigrizia e dal parassitismo dei figli, che non si allontanano, rimanendo così in uno spazio indefinito dove non appartengono più al vecchio nucleo, ma al tempo stesso non riescono a costruirne uno nuovo tutto loro.

Per i figli è importante ritrovare nella nuova casa un alone d’intimità, che permetta di raggiungere una intesa a due, di maturare non solo come singolo o  come appendice della precedente famiglia ma di plasmarsi con l’altro convivendo. I simboli che si ritrovano nella nuova casa, i nomi scritti sul campanello, il letto matrimoniale, e i piccoli oggetti, regali delle nozze, rendono tangibile l’unione della coppia e con la loro “realtà” formano lo spazio psicologico che delimita la vita degli  sposi.

Le famiglie d’origine, soprattutto se con un solo figlio, per un egoismo inconscio non ne promuovono il distacco poiché la sua vicinanza li fa sentire ancora giovani, utili ed evita la solitudine; soprattutto procrastina prolunga la ricollocazione dei genitori nella forma diadica.

Per la nuova coppia è essenziale differenziarsi dai vecchi sistemi familiari, anche se da loro acquisterà “usi e costumi”, per poter trovare nella propria casa un ambiente pieno di stimoli per poter crescere e maturare anche come soggetti capaci nel futuro di accogliere un terzo individuo, il figlio, che consentirà che il romanzo familiare ricominci.

 

Concluderei questo discorso, sottolineando un altro aspetto della trasmissione transgenerazionale: l’importanza dei legami generazionali tra la nuova famiglia e quella d’origine, con le parole di Maria Sbandi e Livio Spirito sull’analisi della teoria di Hill:

 

«Hill ha individuato l’importanza del legame intergenerazionale, vedendo in esso una sorta di filo rosso che segna la strada evolutiva della famiglia: la generazione, dei genitori dei figli sposati, costituisce un “ponte generazionale” tra la propria generazione e quella dei figli. Possiamo ipotizzare che, nell’ambito di ogni cultura, si rintraccino peculiari modalità di fare affidamento sui membri di un’altra generazione, e, viene da pensare che la messa in crisi di questo funzionamento di cooperazione possa essere causa ed/o effetto di difficoltà a superare momenti  evolutivi o impreviste crisi familiari».[51]

 

 

7.     “SI, PER ORA”.

 

«Tali trasformazioni hanno condotto il matrimonio a essere un'istituzione “debole”(Vegetti Finzi, 1992), sia per le minori “definizioni di identità”, sia per il maggior numero di riserve connesse alla sua durata, facendo slittare il fatidico “sì” verso un “sì, per ora” (vedi anche Donati, 1999)».[52]

 

L’essenza della cerimonia nuziale è l’enunciazione del “sì”, coronato dallo scambio delle fedi; con questa promessa, i coniugi s’impegnano ad abbandonare la loro individualità per donare all’altro una completa disponibilità di sé. In questo momento ci si scambia una promessa d’eternità. Con il matrimonio, l’individuo si iscrive in uno spazio correlato alla fantasia inconscia di immortalità; come dice Freud in Introduzione al narcisismo:

 

«L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendente dal suo volere. Egli considera la sessualità come uno dei suoi propri fini; ma, da un altro punto di vista, egli stesso non è che un’appendice del suo plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze in cambio di un proprio piacere. Egli è veicolo mortale di una sostanza virtualmente immortale»[53].

 

Il matrimonio così iscrive i due coniugi nello spazio generazionale che va oltre il tempo e permette agli individui di proiettarsi in questa fantasia di eternità.

Chi pronuncia il “sì” è generalmente convinto che la persona scelta, quella che è al suo fianco, sia la persona giusta, con quale passerà i momenti più belli della sua vita.

Ma nel nostro tempo il “sì” ha ancora un significato eterno o con la possibilità di separazioni questo aspetto perde la sua importanza?

Almeno in quel preciso istante il “sì” pronunciato è un simbolo “senza tempo”o sta diventando un “per adesso sì poi si vedrà”, la possibilità di ripensamento anche nel matrimonio non rende il suo valore meno importante?

Nella nostra epoca, con i divorzi, l’eternità del “sì”sta svanendo; se da una parte molte coppie riconoscono nel matrimonio un valore e lo preferiscono come coronamento del loro amore, è altrettanto vero che sono sempre di più le coppie italiane che usano il divorzio per correggere una scelta passata.

 

«Domenica 3 agosto 2003 il “Corriere della Sera”: “In Italia 65 divorzi al giorno. Sempre meno consensuali. Dal ’71 ci sono state 764 mila separazioni: oggi sono una ogni 5 matrimoni. Diminuiscono gli accordi fra le coppie: si finisce spesso davanti al giudice».[54]

 

Il matrimonio, per lungo tempo immodificabile, ora diventa un percorso della vita correggibile. La sua capacità evolutiva, di scambio, però, deve essere considerata anche sotto aspetti positivi. L’individuo deve acquistare dal divorzio dinamiche per una propria evoluzione personale, non deve utilizzarlo solo come una chiusura statica del rapporto. Grazie al divorzio, oggi, si possono correggere errori personali, ma il suo utilizzo rischia di rendere sempre più semplice la decisione di terminare un rapporto invece che attivarsi nella ricerca di soluzioni possibili per aggiustare un rapporto in crisi. L’area narcisistica dell’individuo può trovare nel divorzio un mezzo semplice per poter soddisfare le proprie esigenze. Le continue rotture matrimoniali rischiano di diventare, come per gli aborti, “il non pensato della nostra epoca” (Vegetti Finzi, 1986), dove l’individuo non arricchisce la sua storia personale continuando a scegliere compagni inadatti a lui e non modificando il proprio comportamento. Anche nel divorzio può essere ritrovata una “coazione a ripetere” dove le tendenze psichiche dei singoli riproducono comportamenti, esperienze e situazioni che sono distruttive per lo stesso individuo.

Il divorzio ha dinamiche differenti se nella coppia sono presenti figli. I coniugi cambieranno la loro posizione di moglie e marito ma non potranno mai sottrarsi alle loro responsabilità genitoriali. Il figlio, indipendentemente dalla separazione dei suoi genitori, dovrebbe poter sempre mantenere stabile la fiducia nei legami.

L’uomo della nostra epoca (uomo e donna), vuole utilizzare al meglio la propria vita per realizzarsi, non staccandosi da una “visone egocentrica”, dove tutte le risorse sono utilizzate come investimenti nei soddisfacimenti personali. Non sempre la propria realizzazione porta al deterioramento di un rapporto, ma quando l’identità narcisistica si scontra con i bisogni e le necessità degli altri, del nucleo familiare (compagno o figli), sarebbe utile fare un passo indietro, limitando il proprio Io. La vita matrimoniale, fatta di rinunce e di scelte limitative, diventa difficile e soffocante proprio perché all’origine l’individuo non ha considerato i possibili sacrifici che essa comporta. Così, ci si allontana da un luogo vissuto come troppo stretto, una “prigione”, magari per ricostruirne un altro subito dopo.

Se, nel passato, la vita matrimoniale era una delle istituzioni più stabili e forti, oggi può essere paragonata in certi casi ad un castello di sabbia in riva al mare, dove ogni onda può comprometterne la sua stabilità. La fragilità della vita coniugale è data dall’incoscienza degli individui che la compongono, che molte volte non riescono a scendere a compromessi per migliorare il matrimonio. Vi è una tendenza a rifiutare l’adattabilità, risulta più semplice scappare davanti a dei problemi che affrontarli. Diventa così più dura la vita familiare, soprattutto dopo la nascita di un figlio, che comporta la disponibilità dell’adulto verso di lui con conseguente sacrificio di momenti e desideri personali.

In un film comico di Antonio Albanese, Il mio matrimonio è in crisi,si  parla di una coppia di neosposini che, dopo le nozze, appena solcano la soglia di casa entrano in crisi. Non trascorre neanche la notte che la moglie si lamenta di una possibile crisi del loro matrimonio, scappa e va alla ricerca (in una fattoria metafora del passato, di valori) della sua identità, sfugge dal marito che, nella prima notte coniugale le è diventato un estraneo, la commedia continua con il tentativo di questi di riportare a casa la moglie, che nel frattempo incontra culture e persone differenti, tutto termina con l’unione della coppia. Si tratta di una commedia stravagante che estremizza la semplicità con la quale un matrimonio oggi può terminare ma parla anche della necessità diventare capace di una propria identità prima di (e per) costruirsi relazioni significative.

Nel passato invece, la generazione di nonni lo conferma, era difficilissimo trovare persone sposate che si lasciavano, non che questo non desse vita a storie clandestine nel matrimonio, ma le scorse generazioni erano disposte ad un maggior sacrificio per mantenere integro il legame. Nel presente, sembra che dopo il “si” le priorità rimangano comunque individuali, il benessere famigliare in secondo piano, e si modellino rapporti basati su due individualità piuttosto che due soggetti disposti a qualche sacrificio.

 

 

 

 

8.     AREA DELLA CONSAPEVOLEZZA[55]

 

Dalle interviste condotte, dal CISF (Centro Internazionale Studi Famiglie) sull’identità di genere di giovani tra i 19 e i 34 anni, emerge una scarsa coscienza esplicita delle definizioni sessuali e soprattutto dell’essere donna e uomo, che compaiono collocati solo all’interno della famiglia o a proposito dei ruoli genitoriali, come se l’identità del singolo fuori da queste definizioni sia solo di tipo androgino.

 

Che cosa significa per un giovane d’oggi essere maschio o femmina?

 

I Maschi rispondono….

Figlio Orsi: “Significa rispettare determinati canoni, che ci sono da una vita, però oggi sono più elastici. Canoni di comportamento. Deve mostrare forza, perché comunque deve garantire sicurezza all’altra persona”.

(…)

Figlio Capanna: “Maschio è chi riesce a tirar fuori quello che ha dentro e a non soccombere rispetto a queste cose e nello stesso tempo ad avere la forza di vivere su di sé le cose negative e poi avere la forza di lasciarsi andare e di vivere pienamente tutte le cose buone senza aver paura di perdersi”.

(…)

Figlio Nobili: “Bella domanda! Penso che oggi essere maschio per me significa poter fare quello che voglio, senza dover dar retta a nessuno, non dover rendere conto a nessuno, soprattutto alla mia ragazza”.

 

Le Femmine rispondono…

Figlia Orsi: “Essere donna nella società di oggi per me non ha significato, ha significato solo individuale(…) Per me essere donna significa aver emozioni diverse dall’uomo, essere donna mi dà tante soddisfazioni, mi fa sentire bene. Secondo me la donna ha dentro di sé delle forti emozioni, non so neanche io spiegare, ho letto un articolo (…)la donna è tale già nel farsi veder donna ad esempio quando va ballare vive un autoerotismo, un piacere nell’essere sé stessa”.

(…)

Figlia Capanna: “Essere diversa dagli uomini e con qualcosa in più, perché essere madre è qualcosa di più, sei tu a generare una vita. Credo anche che le donne dimostrino di essere più forti e indipendenti e io questo me lo sento, più indipendenti per le cose materiali e più forte per le cose che succedono. Molte volte sono stata d’appoggio agli uomini”.

(…)

Figlia Nobili: “ Non credo che sia così diverso a parte che una ha più cose da fare, lavorare, la famiglia. Ci deve essere un aiuto da parte del marito non nel senso che il marito sta a casa e la moglie esce, ma aiutarsi. Credo che ci siano delle differenze tra maschi e femmine e che ognuno ha dei compiti specifici, che non si possa mai arrivare all’uguaglianza, nè sarebbe utile; bisogna collaborare ed ognuno ha le sue caratteristiche proprie”. [56]

 

Dalle risposte raccolte, da parte sia dei maschi che delle femmine, non sembra emergere un’idea chiara, ben definita di cosa voglia dire oggi appartenere ad un genere piuttosto che un altro. Molti intervistati dichiarano di non averci pensato. Si nota nelle interviste che tutti considerano l’essere maschio o femmina come due identità contrapposte. Nei maschi emergono la responsabilità, la forza, la capacità di essere indipendenti e di compiere scelte spregiudicate. Le giovani donne sembrano più consapevoli del loro genere, focalizzando l’attenzione sui valori della maternità, sebbene risultino a volte simili per sicurezza e forza agli uomini. Emerge anche la consapevolezza che oggi essere donna comporta la capacità di lottare, soprattutto in famiglia e per un’equa distribuzione dei compiti. La donna sembra sdoppiarsi: da un lato il lavoro e la costruzione personale, dall’altro il rapporto di coppia, la maternità e la famiglia.

Quando agli intervistati viene chiesto: Come si costruiva l’identità di genere quando i suoi genitori erano giovani?, le risposte dei figli sembrano non considerare differenze tra il percorso di crescita del passato e quello del presente; viene però sottolineato come il cambiamento dei tempi abbia protratto la assunzione di responsabilità più in là nel tempo. Prima il processo di adultizzazione avveniva in età precoce per entrambi i sessi. Nei padri si riscontrano atteggiamenti ribelli e più manifesti di oggi, mentre nelle madri si riscontra una sottomissione a vincoli e regole imposti dalla società.

La definizione d’identità appare perciò nei giovani poco strutturata e legata a caratteristiche vincolanti alla famiglia. I motivi per cui i giovani d’oggi hanno difficoltà a definire la propria identità possono essere individuati da un lato nella incapacità della nostra cultura di definire i generi in maniera adeguata e, in secondo luogo, nella pluralità di stimoli presenti nella nostra società, che rende più semplice una frammentazione di identità piuttosto che una consapevolezza della propria identità.

«E così ci si aspetta dal maschio un comportamento forte, responsabile, protettivo, specialmente se ricopre un ruolo genitoriale. Anche per la maggioranza delle ragazze, sebbene in prima battuta non abbia senso distinguere tra maschio e femmina, alcune differenze vengono poi segnalate: essere donna significa faticare di più per affermarsi, significa essere più sensibili e ricche emotivamente; significa anche essere fondamentalmente più autonome e indipendenti. Significa farsi belle per sé e non per gli altri».[57]

 

 

9.     IDENTITA’ MASCHILE E FEMMINILE NEL MATRIMONIO

 

«Quale sia la possibile armonia di una coppia, non può esistere per essa un luogo di rapporti intersoggettivi senza mutazioni della lingua e della cultura. I drammi che ne conseguono sono talvolta più visibili nell’arte e nella letteratura che in altre rappresentazioni maggiormente regolamentate dalla logica o dall’ordine sociale, in cui la scissione artificiale tra vita privata e vita pubblica contribuisce a mantenere un silenzio complice sui disastri amorosi.»[58]

 

Con il matrimonio, unione tra uomo e donna, si presenta lo storico conflitto tra i sessi. Se in epoche precedenti la società ammetteva una subordinazione femminile, sia nel focolare che nei rapporti con la comunità, oggi questa disparità non è più sostenuta.

Le donne, (dopo la seconda guerra mondiale), hanno lottato per una parificazione dei ruoli. Il “vecchio sesso debole” ha invertito alle origini il proprio status, se prima l’inferiorità era vissuta come la sottovalutazione dei propri sesso e corpo, ora l’identità femminile viene vissuta come valore e non con vergogna. Se nel passato l’essere femminile era discriminato e comportava la sua “messa in ombra” (nella vita familiare come in quella extrafamiliare), nella nuova cultura, invece, si presenta in una collocazione centrale della comunità.

I cambiamenti sociali degli ultimi anni, sono stati influenzati fortemente dall’evoluzione intima di ogni identità, soprattutto dal nuovo e rivoluzionario ruolo femminile. La maggior consapevolezza delle proprie qualità permette alle donne di collocarsi in spazi prima riservati solo all’uomo. Questa evoluzione però le mette in tempi e posti “sconosciuti”, dove conciliare promozioni personali e lavorative diventa sempre più difficile, come se l’accelerazione dei tempi costringesse la donna ad una rinuncia al proprio essere. I tempi maschili (limitati al lavoro), vincolano invece la donna a uno sdoppiamento, dove insieme al lavoro retribuito la moglie deve sobbarcarsi responsabilità casalinghe e di eventuali figli. In un messaggio di una lettrice di Grazia è espresso il poco tempo che la donna ha: «(…) Io lavoro dal 1989 come progettista meccanico. Unica donna del mio ufficio, dopo sette anni di orario dalle 8.00 alle 17.30, e dopo una desiderata maternità, ho chiesto una riduzione di un’ora giornaliera. Cosa mi hanno risposto? Un posto da definire in un capannone in mezzo ad un piazzale, senza riscaldamento. Ovviamente mi sono licenziata. Io non voglio regole diverse dai maschi, ma oltre che donna sono anche madre. E’ questo che non ho trovato nella sua lettera(…). Va bene lei e suo marito hanno scelto una vita votata al lavoro, ma non esiste solo quello. Quando il desiderio comparirà nella sua vita capirà che le otto ore lavorative sono massacranti, oltre al non vedere del tutto i tuoi figli che crescono senza di te. Ma dove sono i benefit e gli aiuti per le donne che lavorano?(…) Sia chiaro a tutti che i diritti (pochi) che le donne hanno ottenuto in campo professionale non saranno barattati. E che se tutti, uomini e donne, pretendessero la loro applicazione, ci sarebbero molti posti di lavoro in più senza sfruttamenti e ricatti.»[59]

Uno sfogo rappresentativo della fatica che le donne d’oggi hanno nel conciliare gli impegni lavorativi con quelli familiari, soprattutto quando non sono supportate adeguatamente dalle istituzioni e dei compagni. La prima persona che deve aiutare la donna a ritrovare un equilibrio in questa vita impegnata è il marito. La divisione dei ruoli è fondamentale per stabilire un equilibrio nelle nuove coppie come una base implicita nel momento delle nozze.

Il tempo sembra svilupparsi in modo differente per le donne e per gli uomini. Nel libro Io tu noi (Per una cultura delle differenze), Irigaray, l’autrice, dedica un capitolo (Quanti anni hai?) al tema dell’età, al tempo femminile. Quando si parla dell’età si osservano pesi differenti per gli uomini e per le donne; i primi hanno meno difficoltà a misurarsi con la propria età, mentre nell’universo femminile, gli anni che trascorrono inesorabili diventano un tabù.

 «Quanti anni hai? Questa domanda fa paura nelle nostre culture, in cui l’età significa invecchiamento».

«Subire l’età come un invecchiamento significa dimenticare questa fortuna di essere nate donne, una fortuna che certo richiede da noi un elaborazione spirituale complessa e molteplice».[60]

La velocità della nostra vita urbana preserva la possibilità di vivere a pieno ogni esperienza, o ne consuma prima dei tempi la sua essenza? Soprattutto nelle donne il tempo è abbastanza da poterlo vivere o viene solo usato?

Nella vita caotica dei nostri giorni, i ritmi non sono più legati a cicli giorno- notte, estate-inverno, il nostro corpo “metabolizza” i 365 giorni in maniera uguale. «La ripetizione senza evoluzione stanca, esaurisce, guasta»[61] Il tempo trascorre, ma se ognuno di noi non ne trae insegnamenti ogni compleanno sarà solo una sterile somma di numeri. Questa “staticità del tempo” è più nociva per la donna, poiché la sua vita è scandita, irreversibilmete, da passaggi biologici e maturativi. «Ciò significa che non si può ridurre la vita di una donna a una serie di azioni che si sommano o si elidono. La vita di una donna è segnata da avvenimenti irreversibili che definiscono le tappe della sua età; la pubertà (un fenomeno che esiste anche per i ragazzi) la deflorazione, il concepimento, la gravidanza, il parto, l’allattamento, avvenimenti che possono ripetersi senza ripetizioni; ogni volta, si presentano in modo diverso; il corpo e lo spirito sono cambiati, nel processo, nell’evoluzione fisica e spirituale.(…) Infine, la menopausa segna un’altra tappa nel divenire del corpo e dello spirito femminile, una tappa caratterizzata da un diverso equilibrio ormonale, da un diverso rapporto con il cosmo e con il sociale».[62]

In conclusione, il tempo femminile non si deve limitare ad uno sterile conteggio di cifre ma deve essere valorizzato, anche nella nostra epoca.

La lettera sopra citata della mamma lavoratrice, costretta al licenziamento per mancanza di tempo, introduce il ruolo della donna nel lavoro moderno, che influenza direttamente il suo ruolo nella famiglia. Ritornando alle parole di Irigaray riferite agli ambienti lavorativi :

«Le leggi che regolano l’organizzazione del lavoro sono ancora generalmente determinate dagli uomini, e le donne vi si devono adattare. (…) L’esempio degli orari di lavoro è particolarmente caratteristico di una manodopera maschile che dispone di una donna che resta a casa, serve e custode dei figli».[63] La donna che si avvicina al lavoro, per motivi economici o di soddisfazione personale, deve fare sforzi superiori e deve essere in grado di gestire il tempo nel migliore dei modi a favore del benessere famigliare.

«…Una minor disponibilità delle donne a sostenere sulle proprie spalle il peso quasi esclusivo di una difficile conciliazione tra vita familiare e lavorativa. Nel 1995 in Italia il 40% delle donne lavoratrici con famiglia hanno lavorato complessivamente 70 ore la settimana e circa il 60% ha lavorato almeno 60 ore, mentre solo un numero irrisorio di uomini ha condiviso questo pesante fardello».[64]

 L’emancipazione femminile, da una parte, rischia di far crollare un equilibrio che dura da secoli, dove la donna è sempre pronta a dedicarsi alla casa, mentre l’uomo viene servito. In questo periodo di cambiamenti, il marito può avere delle difficoltà d’adattamento.

L’uomo, come la donna nel lavoro, deve introdursi in un nuovo mondo, quello della casa, per lui universo nuovo, o meglio trasformato, dove se prima, nella famiglia d’origine, (dalla mamma) era servito e riverito, ora dovrà attivamente svolgere lavori domestici, aiutare la propria compagna a suddividere gli impegni nelle ore della giornata. Questa brusca realtà può portare il pensiero maschile a passo indietro nel tempo, preferendo la donna casalinga dedita al marito e alle cure del focolare.

La televisione ci presenta identità femminili che ottengono soddisfazioni lavorative ma che perdono interesse nelle relazioni di coppia; oppure che vogliono vivere in maniera troppo intensa entrambe le situazioni, finendo per distruggerle. Un personaggio tipico dell’evoluzione femminile “senza limiti” è Ally McBeal (protagonista dell’omonimo telefilm), avvocato in carriera ma un “disastro” nella vita di coppia, non perché troppo maschile, ma perché svalutante molte volte il suo lato femminile, concentrandosi sul lavoro e spaventando gli uomini con la sua posizione lavorativa. E’ una donna relegata ad un amore magico, fantastico e forse passato, sogna ad occhi aperti il proprio principe azzurro, ma non fa alcuno sforzo per cercarlo e quando si trova in una relazione pseudostabile, si sente soffocare.

La nuova identità femminile, sotto alcuni aspetti, ha mutato anche il carattere e il comportamento maschile. Difficile trovare oggi maschi sicuri, apparentemente forti come in passato. Sempre riguardo al telefilm sopra citato, lo studio di avvocati, che è composto in prevalenza da donne, ha come capi fondatori due giovani uomini che sembrano prevaricati nelle decisioni dal corpo femminile dello studio.

Presenza simpatica e con molti spunti riflessivi, è Jon Chage (detto Biscottino), avvocato molto intelligente e sicuro, ma intimidito dalle donne, verso le quali ha spesso atteggiamenti goffi che fanno trapelare la poca sicurezza in sé, tanto che ricorre a frequenti trucchi per acquisirne un po’. Si tratta di figure allegoriche ma che in un certo qual modo rappresentano, anche se in cognizioni estreme, il cambiamento generazionale della nostra epoca.

Se, nel passato, la “superiorità” maschile era una caratteristica base nel matrimonio, oggi non lo è più, e la parola matrimonio, come sottolinea Vegetti Finzi :«(…) dal latino matrimonium, allude ad un mutamento della condizione della donna, al suo accingersi a divenire mater. (…)Così non è casuale che si dica “scegliersi una sposa”, “prendere moglie”, o “andar sposa a”, “esser sposata da”, tutte espressioni che rivelano la posizione passiva della donna e il suo fungere da tramite , da oggetto che passa dalle mani del padre a quelle del marito». [65], oggi non ha più senso.

Gli uomini subiscono un gran trauma, soprattutto quando nella loro compagna non ritrovano quella “sudditanza” che invece era la base della famiglia tradizionale, dove le decisioni venivano prese dal padre e la madre non si contrapponeva mai a questa figura. Questa evoluzione di identità, nel bene e nel male, modifica le relazioni tra individui e nella coppia, soprattutto quando si passa da coppia invisibile (fidanzati) a coppia visibile (marito e moglie).

 

 

 

 

 

10. L’EQUILIBRIO AMOROSO NEL MATRIMONIO.

 

«Le diversità tra uomo e donna, determinate dalla storia e dalla cultura, si intrecciano poi nel matrimonio con valori e disvalori propri delle singole vite. La diade coniugale non è costituita da due angeli; ciascuno riveste nel mondo una precisa collocazione etica, sociale, economica, culturale.»[66]

 

Nelle nuove coppie non essendoci più una condizione di sottomissione, ci si trova in uno scontro tra due individualità, quella maschile e quella femminile. Ora però si può anche parlare di una realizzazione di entrambi i coniugi.

Nella situazione matrimoniale più tradizionale, dove il marito sorregge economicamente la famiglia, e la moglie viene relegata a ruoli marginali o non lavorativi, i cambiamenti non sembrano influenzare l’equilibrio della coppia. Ma in tutti quei matrimoni dove il livello culturale e la retribuzione femminile sono pari o superano quelli maschili, sono presenti segni di disuguaglianza coniugale.  A mio parere, la donna che si trova a dover gestire il lavoro e la casa, se non riesce a trovare un suo equilibrio, potrebbe causare problemi alla coppia per continue lamentele al compagno sul suo scarso interessamento alle esigenze della coppia.

Comportamenti di restrizione, che inizialmente possono essere visti solo come atti d’amore, col procedere del tempo, quando la fase di totale innamoramento scema, possono essere vissuti come atti di soffocamento personale, soprattutto quando è il marito a voler limitare la vita sociale della donna, sia essa in campo lavorativo che in quello delle amicizie. L’equilibrio della coppia non deve venir visto come una condizione statica, ma va considerato in continua evoluzione sia per le trasformazioni dei singoli individui sia per episodi della vita, come la nascita di un figlio. La complementarietà degli individui forma la costanza della coppia e del matrimonio, mentre squilibri, gelosie e caratteristiche troppo similari a lungo andare ne minano l’armonia, rendendola fragile e passibile di rotture.

Lo scambio della coppia con l’esterno è fondamentale per darle più respiro, come nell’acquisizione dell’identità dei singoli, dove è importante disporre di uno spazio esterno proprio, per entrare ed uscire da sé e per esprimersi come Soggetti autonomi e liberi [67]. La possibilità di scambiare idee e azioni fuori delle mura domestiche permette agli individui di arricchirsi come individui e come diade. Ma lo scambio non deve essere limitato alla cerchia dei familiari. Il tempo femminile così allargato a nuove esperienze rischia, in un certo qual modo, di trasformare le aspettative tipiche del passato. Se prima la miglior realizzazione di una donna era quella di creare una  famiglia e di avere un focolare pieno di vocine urlanti, oggi questa visione appare piuttosto un incubo. La donna oggi può trovare molte strade per sviluppare la propria personalità.

In opposto, si possono trovare figure maschili nostalgiche, con la propria rappresentazione femminile di donna tra i fornelli che accudisce i figli e soprattutto pronta ad accoglierli al ritorno a casa, per i quali la realtà si dimostra una dolorosa doccia fredda. La divisione dei compiti familiari, soprattutto dopo la nascita di un figlio, è essenziale per il progredire armonico del nucleo familiare.

Concludo citando la posizione dei ruoli coniugali considerati nel libro Famiglie di Laura  Fruggeri:« L’indagine condotta da Hochschild (1989) mostra che la credenza nella parità fra marito e moglie anche in casi in cui sono le donne a fare la maggior parte del lavoro, è attivamente mantenuta da entrambi i membri della coppia allo scopo di preservare l’armonia familiare e di evitare i conflitti.

La percezione o meno dell’incongruenza fra la divisione del lavoro domestico e concezione delle relazioni di coppia si associa infatti al grado di soddisfazione coniugale e di conflitto. In particolare, un’asimmetria nella distribuzione dei compiti familiari e dei tempi di cura a svantaggio delle donne non comporta  l’insoddisfazione di queste ultime , se esse hanno una concezione  tradizionale  dei ruoli sessuali, mentre all’opposto si associa a un elevato grado si insoddisfazione e alla presenza di conflitti di coppia, nel caso in cui esse hanno aspettative di parità fra i coniugi. Viceversa, gli uomini denunciano insoddisfazione e conflitti quando, pur partecipando poco al lavoro familiare, hanno una rappresentazione dei ruoli familiari  tradizionale, mentre esprimono minore insoddisfazione quando il loro aiuto alla moglie nelle faccende domestiche  si accompagna ad una concezione  paritaria dei rapporti coniugali (Perry-Jenkins, Crouter, 1990; McHale, Crouter, 1992; Perry-Jenkins, Folk, 1994)»[68].

La parità dei rapporti intrafamiliari deve essere oggi un valore pienamente condiviso, una meta da raggiungere insieme.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TERZA PARTE

LE FAMIGLIE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAP. 1

NUOVE FAMIGLIE

 

Alla voce famiglia, nel dizionario Garzanti[69], compaiono due definizioni:

-“complesso di individui congiunti da vincoli di sangue (padre, madre, figli) o uniti da rapporto di parentela o affinità, che vivano insieme (…). La Sacra Famiglia, Gesù, la Madonna e san Giuseppe (…).”(p.342)

 -“L’insieme di tutte le persone, passate, presenti, future, di uno stesso sangue”.(p.342)

La famiglia è lo spazio delle relazioni triangolari, dove si formano narrazioni simili e differenti per tutti i suoi membri.

La famiglia non solo concerne la dimensione sociale, ma si può ritrovare una mappa interna agli individui che sviluppa relazioni inconsce, riconducibili al mito, quello di Edipo. Nella tragedia di Sofocle, si narrano le vicende di due famiglie, quella di Tebe e Corinto. In questo racconto, il protagonista, Edipo, viene allontanato dalla famiglia d’origine (quella di Tebe), composta da Laio, re di Tebe e Giocasta. Il suo abbandono è dovuto alla profezia di un oracolo, il quale avvisò il padre che il bambino nato sarebbe stato il suo assassino.

Edipo fu salvato da una nuova famiglia, quella di Corinto, dalla quale viene allevato. Edipo, alla ricerca della sua identità, interroga l’oracolo, che gli consiglia di stare lontano dalla sua patria, (intendendo Tebe), perché sarebbe potuto diventare l’assassino del padre e il marito della madre.

Egli spaventato, fugge, ma nel suo cammino incontra Laio (il vero padre), per motivi di precedenza scoppia una lite e Edipo lo uccide; poi prosegue il suo cammino fino all’ingresso nella città di Tebe, dove risolve l’enigma della sfinge, che gli permette di entrare nella città; qui il popolo gli dona Giocasta (la sua vera madre) come sposa, e con lei avrà quattro figli. Per lungo tempo rimasero uniti come marito e moglie, trascorrendo una vita felice, ma il paese venne colpito da una pestilenza. L’oracolo afferma che l’unico modo per farla terminare è trovare l’uccisore di Laio. L’assassino è Edipo il figlio di Laio e di Giocasta. La profezia dell’oracolo si è avverata. 

L’elemento inquietante di questa storia è vissuto in maniera fantasmatica in ogni rapporto familiare e permetterà l’acquisizione di un’identità sessuale e il riportarsi di ogni individuo alla vita relazionale futura.

 

«Non possiamo capire la centralità e conflittualità della famiglia se non riconosciamo, dietro alle sue forme sociali, l’ombra del complesso edipico. Le vicende familiari, per quanto prevedibili, non sono mai né accidentali né banali: esprimono infatti sulla scena privata, il dramma di tutti»[70].

 

1.     COME SI DIVENTA FAMIGLIA

 

«Quando ci accingiamo a mettere su famiglia  crediamo di seguire soltanto il nostro desiderio, ma in realtà siamo orientati da una mappa inconscia che la psicoanalisi ha messo in luce nei suoi percorsi facilitati o interdetti».[71]

«Si può pertanto dire che il figlio fonda la coppia, la crea come famiglia»[72]

 

La famiglia è, e sarà sempre, un’unità sociale di base, garantirà educazione, valori, identità ai figli che nasceranno, ma la sua struttura è in continua evoluzione.

Oggi, quando si parla di nucleo familiare, non ci si limita a pensare alla famiglia tradizionale, composta da una coppia unita nel matrimonio e con figli biologici, ma bisogna estendere la sua struttura ad un plurale di nuove famiglie. Tutte queste nuove forme familiari, a mio parere, prendono però fondamentalmente vita dalla famiglia tradizionale.

 

« Il passaggio dal due al tre è una rivoluzione silenziosa che esprime, nel caso migliore, il desiderio di espandere la propria ricchezza esistenziale, la propria potenza di vita, il condividere la propria felicità»[73]

 

Nelle relazioni con la famiglia d’origine, la coppia va incontro a due trasformazioni, quella legata al matrimonio, decisione che dovrebbe allontanare fisicamente i coniugi dalla casa paterna, per costruirne una nuova, e quella legata alla nascita del primo figlio, che trasforma i coniugi in genitori. Così ci si trova, nell’arco di poco tempo (visto che in Italia il primo figlio avviene nei primi anni dal matrimonio), in una ristrutturazione delle relazioni tra le due generazioni.

Una famiglia è l’evoluzione della coppia coniugale, che accoglie nella sua diade un terzo, il figlio. La trasformazione in famiglia può avvenire in forma consapevole, programmata, oppure inconsapevolmente, in una forma dettata da desideri inconsci. Mettere al mondo un bambino nella famiglia tradizionale di oggi comporta differenti sfaccettature.

Se il desiderio di un figlio coinvolge entrambi gli individui della coppia, il suo arrivo sarà legato a scelte economiche e vincolate alle possibilità sociali. La scelta di diventare genitori comprende dinamiche maturative complesse, quando si desidera avere un figlio si è pronti a perdere parti delle proprie libertà individuali e di coppia per concentrarsi sul bambino. Tutte le attenzioni vengono spostate sul nuovo arrivato, che viene investito di emozioni, pretese, gioie e dolori inspiegabili, proprie di ogni narrazione familiare.

 

«Nel caso migliore, desideri coscienti e desideri inconsci coincidono e il bambino nasce nel momento più opportuno»[74]

 

Si possono trovare coppie sposate ma che nella loro vita, momentaneamente, non trovano spazio per un bambino reale al quale dare le proprie attenzioni. Quando involontariamente queste coppie diventano genitori, l’arrivo del bambino, “non desiderato”, potrebbe rendere instabile lo stesso rapporto di coppia, poiché sono i nuovi genitori a non essere pronti. Così il bambino immaginario e quello reale non sono sincronizzati, e il nascituro si trova in uno spazio esterno alla coppia, e rischia così di non trovare una posizione adatta.  

Le famiglie della nostra epoca, continuano a rimandare la decisione di un figlio per diverse problematiche: il dispendio economico che esso comporta, l’incapacità ad accogliere nella coppia un terzo, la paura di diventare genitori e la paura di svolgere un ruolo educativo troppo impegnativo. Si trovano così famiglie tradizionali ma in età sempre più avanzata, dove il “più tardi” arriva “al limite” delle possibilità biologiche della donna e della sua fecondità.

 

2.     LA FAMIGLIA TRADIZIONALE

 

Fino agli anni sessanta quando si parlava di famiglia, si pensava alla famiglia nucleare composta dai genitori (coppia eterosessuale) e dai figli, o eventualmente a quelle allargate, che annettevano anche le famiglie d’origine. I soggetti che desiderano “metter su famiglia” (nel termine tradizionale) devono percorrere delle tappe standard: matrimonio, vita coniugale, costruzione di una casa e, al tempo stesso, devono provvedere a organizzare la coppia in maniera sicura e stabile per garantire, nel futuro, alla famiglia fondamenta capaci di sostenere la nuova relazione e i figli.

Anche nelle famiglie nucleari di oggi si avvertono però dei mutamenti, sia legati all’età dei coniugi, sia al numero dei suoi membri. Nella generazione dei nostri nonni, (nati agli inizi del 1900), si ritrovano nel focolare tanti bambini, la famiglia del passato vedeva nei nascituri da una parte le benedizioni divine e dall’altra possibilità di una manodopera.

Oggi invece ci si sposa sempre più in là nel tempo, e il primo figlio arriva pochi anni dopo il matrimonio. La scelta di sposarsi in età avanzata rischia di far diventare il primo figlio anche l’unico. Se in passato la famiglia con la madre, il padre ed un solo bambino era vista come la “mosca bianca”, oggi avviene il contrario, ci si interroga su come una coppia faccia ad avere più di due figli, ci si spaventa di fronte ad una donna con il passeggino e con ancora il pancione. Le rilevazioni statistiche EUROSTAT[75] mostrano dei cambiamenti demografici nei paesi dell’Europa in particolare si osservano modificazioni numeriche tra meridione e settentrione sia in Italia che nel resto dei paesi.

«La famiglia cosiddetta tradizionale si accompagna a livelli di fecondità del momento ridotto, pari a 1,44 figli per donna nel comportamento medio riproduttivo europeo,inferiore al valore di due figli per  donna o coppia che consenta la “sostituzione” della coppia».[76]

L’esperienza genitoriale viene rinviata, ma dati statistici ne rivelano la presenza soprattutto nel centro-nord d’Italia, dove le coppie rinunciano raramente al figlio ma questi è rinviato dopo la vita autonoma e il matrimonio, così la paternità e la maternità si limitano ad un unico figlio (Santini, 1995), e ciò spesso in disaccordo con i valori denunciati dalla coppia.

La famiglia nucleare del nostro tempo mantiene perciò le basi di quella del passato per quanto riguarda l’organizzazione esterna, (matrimonio, casa, figli) ma è mutata la relazione tra i suoi membri e, soprattutto, è cambiata a livello numerico.

Queste famiglie tradizionali diventano, nella maggior parte dei casi, famiglie allargate, dove l’aiuto della famiglia d’origine diventa essenziale per far fronte alle problematiche della vita quotidiana.

 

 

3.      LA SFERA FAMILIARE[77]

 

Il termine “sfera famigliare” (“family realm”) viene coniato da alcuni autori (Beutler, Burr, Bahr e Herrin, 1980) per sottolineare l’unicità della famiglia, che differisce profondamente dalle altre sfere delle esperienza umana.

Le caratteristiche che la distinguono sono:

a)      La natura generazionale e la permanenza delle relazioni familiari.

b)     Il rapporto con le persone inteso nella loro interezza, senza distinzioni di ruolo.

c)     Il processo di orientamento, che deriva dalle cure reciproche.

d)     La specifica ed intensa tensione emotiva.

e)     L’enfasi sulla “qualità” dei propositi e dei processi.

f)      L’orientamento altruistico.

g)     La forma di sostegno, protezione e contenimento che viene assunta negli stili educativi.[78]

 

La famiglia, possiede dinamiche e processi specifici in grado di produrre effetti potenti e significativi su ogni aspetto della vita di ogni individuo.

La prima caratteristica si può ritrovare solo nelle dinamiche familiari, ed è anche vero che nella famiglia le emozioni e gli affetti  sono molto intensi, da questi sentimenti si determinano le dinamiche di altruismo e di cure reciproche che nella sfera familiare sono la base per la sopravvivenza. La forza dei sentimenti provati verso gli elementi della famiglia porta a rivolgere il pensiero, in situazioni belle e brutte, sempre verso i propri cari. Caratteristica ultima, ma forse dal mio punto di vista la più importante, è la capacità della sfera familiare di essere un sostegno, una protezione e un contenitore che svolge ruoli educativi fondamentali per lo sviluppo di tutti i suoi elementi.   

 

«L’insieme di queste caratteristiche fa della sfera familiare un concetto utile per descrivere quella parte delle condizioni umane nella quale le relazioni sono generazionali e permanenti; nella quale le persone vengono percepite nella loro interezza, dove la risposta ai bisogni di queste persone assume la forma di una molteplicità di mezzi e di propositi, perseguiti simultaneamente in un ambiente organizzato in maniera complessa»[79].

 

Questa sfera familiare rischia di trasformarsi nella, nostra epoca, in una grossa bolla di sapone, delicata, evanescente, con confini fragili e soprattutto incapace di sostenere tutte le caratteristiche sottolineate in precedenza.

Si assiste ad un cambiamento della famiglia nella sua struttura e nelle funzioni, cambiamenti imposti da mutamenti sociali e dell’identità dei protagonisti.

 

 

 

4.     LA FAMIGLIA AL PLURALE

 

«Non esiste un modo di essere e di vivere che sia migliore per tutti (…) La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa, perché le circostanze sono diverse. Parole del sociologo francese Émile Durkheim, scritte nel 1888, sono ancora valide oggi e ci aiutano a comprendere la trasformazioni della famiglia contemporanea, benché la situazione non sia confrontabile con quella del tempo in cui l’autore scriveva»[80].

 

La famiglia, in quanto istituzione, può cambiare con il modificarsi delle strutture sociali, politiche, economiche che la circondano, e a sua volta ne modifica le basi con le identità dei suoi singoli individui. Le modificazioni sociali verificatesi alla metà del nostro secolo in un certo qual modo hanno alterato la composizione tipica della famiglia: l’industrializzazione, il lavoro delle donne, la nuova identità femminile, la parità coniugale, la diminuzione dei matrimoni e delle nascite, l’aumento delle separazioni e dei divorzi, la nascita di figli fuori dal matrimonio.

Nello scenario delle famiglie occidentali soprattutto del nord del mondo e nei paesi industrializzati, si assiste a cambiamenti delle relazioni familiari. Emergono forme di famiglia implicanti modi di convivenza molto diversi: troviamo famiglie nucleari, ricomposte, monoparentali (solitamente la madre), figli con genitori non sposati o figli con genitori che non vivono assieme. A queste famiglie di tipo eterosessuale, “tradizionali”, si aggiungono anche quelle considerate “alternative”, come le coppie di omosessuali o aggregazioni comunitarie che in alcuni paese del nord Europa trovano nella costituzione anche tutele pari a quelle famigliari. Anche le convivenze di coppia in una casa propria con o senza figli, oggi sono considerate una famiglia.

5.     LE FAMIGLIE DI FATTO

 

L’espansione delle famiglie di fatto, nella nostra epoca, è il segno di un cambiamento del valore del matrimonio e delle unioni familiari.

La famiglia di fatto o libera è “La situazione di due persone (di solito, ma non necessariamente, di sesso diverso) che vivono insieme sotto uno stesso tetto come sposi, senza essere uniti nel matrimonio”, secondo la definizione del sociologo Marzio Barbagli.[81]

Le forme di convivenza nel passato avevano valori diversi da quelle di oggi. Chi conviveva lo faceva innanzi tutto per mancanza di soldi e questo comportamento era sinonimo di un atteggiamento deviante. Oggi invece sono per lo più scelte della coppia in alternativa alle nozze.

 

Diverse sono le percentuali (sempre approssimative, perché la convivenza non ha documenti che ne confermano l’inizio e la fine) nei paesi del mondo. I popoli nordici (Svezia e Danimarca) sono quelli che hanno insediato nella cultura la famiglia di fatto.  In altri paesi d’Europa questo modo di vivere, dopo gli anni settanta, si sta espandendo sotto le vesti di una possibile prova prematrimoniale.

Nella popolazione italiana sembra invece resistere più che in altri paesi, il rito del matrimonio, anche se il suo utilizzo è sempre più procrastinato e viene vissuto come reversibile più che nel passato. Il maggior riconoscimento del matrimonio, come vero valore nell’unione coniugale, forse è riconducibile alla cultura religiosa del nostro paese e al fatto che coloro che si professano fedeli sono un numero molto elevato.

L’ identificazione effettiva delle famiglie di fatto in Italia è difficile per una serie di motivi. Le ricerche si basano o su inchieste dirette della vita coniugale dei soggetti (che non sempre ammettono il proprio stato) oppure su dati dell’anagrafe (che non sempre sono aggiornati). In Italia la prevalenza delle coppie di fatto è costituita da giovani, un buon numero intraprende questa strada come unica unione della loro vita, procreando figli all’interno di questa unione. Altre coppie, che ricorrono alla convivenza sono formate da persone che si lasciano alle spalle un matrimonio fallito oppure una vedovanza.

La coppia di fatto è una scelta che sempre più donne (soprattutto quelle che hanno una loro indipendenza economica) tendono a fare perché la considerano una scelta che permette loro d’essere meno vincolate agli obblighi casalinghi rispetto al ruolo di moglie.

Marzio Barbagli individua “quattro motivi per convivere”[82]:

La prima categoria è composta di quelle persone che si ricongiungono con un nuovo compagno dopo essersi già sposate. In queste unioni (solitamente costituite da persone con un’età avanzata) non vi è alcun atteggiamento dichiaratamente pregiudiziale contro il matrimonio. Se questo comportamento era presente in passato anche oggi è riconosciuto come uno dei metodi più semplici per convivere con una persona poiché i tempi per il divorzio sono ancora lunghi.

Il secondo tipo di unione di fatto è caratterizzato dal rifiuto ideologico del matrimonio: dove le coppie vedono nel matrimonio la “tomba dell’amore”, pensando che invece in una relazione apparentemente più libera la passione della coppia non svanisca mai.

Il terzo modello deriva dalla messa in discussione dei tradizionali ruoli maschili e femminili e dalla divisione dei compiti tra i coniugi. La parità sembra più difficile nelle mura domestiche.

Il quarto e ultimo tipo familiare si individua nella coppia giovane che non vuole correre rischi nel matrimonio così prova per un po’ di tempo la convivenza prima di sposarsi.

 

«A questi quattro tipi di famiglia di fatto individuati da Barbagli se ne può aggiungere un quinto, definibile come convivenza “aperta” o “neutrale”, probabilmente in via di espansione, in cui può intravedere una tendenza a unioni più durature. Non è un matrimonio di prova, né del timore del suo possibile fallimento, anche se non si può escludere che alcune di queste motivazioni siano presenti. Il tratto caratteristico di queste unioni di fatto è che manca nei partner un preciso progetto matrimoniale, ma manca anche una esplicita e  precostituita ostilità nei confronti delle nozze».[83]

 

               5.1 FAMIGLIE DI FATTO E I DIRITTI.

 

Il diritto, oggi, non si rivolge alla famiglia come struttura ma soprattutto agli individui che la compongono, lasciando maggiori libertà di scelta alla relazione migliore per il singolo.

La regolamentazione delle coppie di fatto deve soprattutto valutare se nell’unione (non di diritto) siano presenti del figli e tutelarli. La legislatura così equipara i diritti dei bambini nati fuori dal matrimonio a quelli che nascono in un’unione coniugale “legale”. Un’equiparazione però non completa. I figli nati nel matrimonio, in caso di divorzio dei genitori, sono tutelati da un giudice che decide l’affidamento ad uno dei coniugi. Questo non avviene nell’unione di fatto, dove il bambino è “un’entità invisibile” e il suo affido è lasciato alla decisione dei genitori, solo in caso di richiesta al tribunale dei minori, da parte della madre o del padre, la decisone verrà rivalutata.

In entrambi i casi, la coppia deve sempre e comunque mantenere il proprio ruolo di educatore, contenitore.

Ancora meno la legislazione interviene nel caso della divisione dei beni. In una coppia di fatto il singolo individuo legalmente non viene tutelato a livello finanziario, poiché  la procedura di separazione non è sottoscritta in tribunale, ma è invisibile come la precedente unione. Dopo la rottura gli ex non possono beneficiare di assegni di mantenimento, il genitore che rimane solo con il bambino si ritrova senza niente, la legge non gli garantisce nessun ritorno economico dalla relazione passata.

 

 

6.     CHI VIVE DA SOLO

 

Nel passato le scelte erano limitate: o ci si sposava o si rimaneva nella famiglia d’origine oppure s’imboccavano strade religiose o militari (dipendeva dal sesso, da ragioni partimoniai, e non sempre dalle vocazioni).

Oggi invece chi vive solo può appartenere a una molteplicità di categorie, la persona in età avanzata che rimane sola (vedove solitamente, perché le donne sono più longeve), oppure giovani adulti che dopo il divorzio si ritrovano a dover gestire una vita da single o soggetti ancora giovani che come prima esperienza scelgono la strada dell’indipendenza e  dell’autonomia.

 

«Trasformazioni della famiglia, il vivere soli è la manifestazione estrema del processo di riduzione delle sue dimensioni e nello stesso tempo della moltiplicazione delle sue forme, fenomeni tipici dell’età contemporanea»[84].

 

Le caratteristiche e le motivazioni di una vita in solitudine dipendono dall’età e dal genere. Per le persone anziane vivere da soli in una casa non è quasi mai una scelta (anche se tengono alla loro autonomia), ma la morte del congiunto li colloca in una vita da single alla quale si dovranno abituare.

Questa condizione è determinata soprattutto dal prolungamento dell’età dei soggetti e dal venir meno della coabitazione tra le generazioni.

Un altro comportamento, in questo caso parzialmente volontario, è quello delle persone che arrivano da un’esperienza matrimoniale o di convivenza terminata, qui il soggetto dovrà rielaborare la propria condizione d’identità singola, molte volte questo presupposto può essere considerato transitorio, ma può perdurare nel tempo fino alla morte dell’individuo, importante sono l’età del soggetto e le prospettive sociali.

La scelta di vita autonoma e indipendente dalle famiglie d’origine è intrapresa da quei giovani che vogliono vivere uno stato di passaggio dove ritrovare nell’individualità una vita più equilibrata e stabile. Vivere da soli solitamente per i giovani è solo una fase di passaggio come una pausa per riappropriarsi del sé individuale, che nella vita familiare e di coppia può essere inglobato nella totalità.

Tutti questi individui, che come scelta decidono di vivere soli, non sono però privi di legami emotivi o affettivi duraturi.

Anche il genere è importante, nella nostra epoca si possono osservare sempre di più donne che decidono (grazie ad una propria autonomia economica) di vivere sole. «Per queste donne il vivere da sole rientra per lo più in una strategia temporanea di rinvio delle responsabilità familiari, ma queste situazione può trasformarsi in definitiva col passare del tempo, sia per la libera scelta, sia perché diventa sempre più difficile trovare un partner con l’avanzare dell’età»[85] 

Ma la vita di relazione di queste donne è comunque piena di scambi sociali, popolata di amici, conoscenti e colleghi di lavoro.

La vita del single sembra nella nostra epoca o scelta personale e decisione di vita, oppure costrizione di circostanze della vita, come la morte del compagno oppure il divorzio.

 

 

 

7.     CON UN SOLO GENITORE

 

Sono considerate famiglie con un solo genitore quelle dove il bambino/i vive in una casa con una sola figura genitoriale.

Questo tipo di famiglia esisteva gia in tempi passati, ma la sua natura era sempre legata a condizioni di sventura, quali: la morte di uno dei coniugi, abbandono (solitamente del padre), circostanze dove il fato più che la volontà individuale interveniva nella sua costituzione.

Le famiglie con un solo genitore, oggi invece, appartengono anche a realtà diverse: ragazze madri, separazione legale o di fatto, nascita di un figlio fuori dal matrimonio, divorzio. Per tutte queste condizioni la famiglia unigenitoriale è in aumento visto che, oltre al destino, si combina la volontà delle persone nelle separazione.

Passato e presente s’incontrano. Realtà prima parzialmente invisibili, con gravi problematiche, oggi sono considerate a pieno titolo un nucleo familiare e soggette a rilevazioni statistiche:

« L’Istat ha cominciato a rilevare e a fornire qualche informazione. (…) Dai dati emerge che anche da noi le famiglie con un solo genitore sono sensibilmente aumentate nell’ultimo decennio, sia pure in misura contenuta rispetto ad altri paesi, passando tra il 1983 al 1994 dal 5,5%  al 7,2% sul totale della famiglie costituite di minori».[86]

 

Il più delle volte il genitore solo è una donna; per due motivi, da una parte perché la vedovanza è prettamente femminile, inoltre per il fatto che, in caso di separazione, solitamente i bambini vengono affidati alla madre.

Questa realtà (per la maggior parte femminile) pone l’accento sulle difficoltà di combinare gli impegni lavorativi (essenziali per mantenere il nucleo familiare) e quelli educativi.

 

 «In Italia dunque, a differenza di quanto avviene nella maggioranza degli altri paesi europei, le donne sole che lavorano con figli sono molto più numerose di quelle in coppia: mentre fra le prime le occupate sono oltre il 60%, fra le seconde superano appena il 40%. Troviamo le quote più alte di lavoratrici tra le divorziate, seguite delle madri nubili, dalle separate e infine dalle vedove»[87].

 

Per molti aspetti la condizione del genitore rimasto vedovo si avvicina a quella della figura femminile che è uscita da un matrimonio o da una relazione di fatto con figli, soprattutto quando il coniuge è assente. La madre, che in questo caso può tener conto raramente dell’aiuto del marito, rischia di essere percepita dai bambini come troppo severa, triste, una donna senza interessi.

La figura paterna, presente solamente nei fine settimana, invece, è investita da sentimenti forse più positivi, perché si colloca in situazioni non solo educative ma soprattutto di svago, come gite fuori città, serate al cinema, e solitamente la visita del genitore non affidatario è accompagnata da regali e gratificazioni che non sempre il genitore che ha un rapporto continuativo può permettersi.  

La difficoltà delle donne (sole) nel gestire le problematiche economiche e sociali, è spesso alleggerita dall’aiuto della famiglia d’origine, che in questa situazione, non ricopre solo funzioni di sostegno affettivo ed emozionale ma anche economico, oltre che come presenza educativa e fisica in assenza del genitore.

Solitamente le famiglie unigenitoriali, in caso di divorzi, ritornano alla casa paterna, oppure (in situazioni di ragazze madri o non congiunte) il loro allontanamento non era mai avvenuto. Solitamente, le donne che divorziano o sono abbandonate dopo la nascita del figlio, si limitano solo alla convivenza con il piccolo; non gestiscono o non riescono a gestire altre relazioni se non in età avanzata del bambino.

 

«Se a questo punto volessimo tracciare il ritratto del tipico genitore solo, dalle ricerche empiriche emergerebbe l’immagine di una donna non più giovanissima, con un solo figlio già grandicello, con una rottura  coniugale dietro di sé, che svolge un lavoro  retribuito, ma in condizioni economiche piuttosto difficili».[88]

 

 

8.     LE FAMIGLIE RICOSTRUITE

 

«per famiglie ricostruite si intendono appunto quelle in cui, secondo le parole della sociologa Chiara Saraceno,“due persone provenienti entrambe o una sola da un altro matrimonio vivono insieme ai figli nati da questo precedente matrimonio e talvolta anche ai figli nati dal nuovo matrimonio»[89]

 

Per la natura complessa della famiglia, e dei suoi mutevoli e differenti nuclei familiari, forse questa definizione non è esaustiva. Nel libro Le nuove famiglie Anna Laura Zanatta esprime in questi termini la famiglia ricostruita: 

«per famiglia ricostruita si intende allora una coppia sposata o non sposata, con o senza figli, in cui almeno uno dei due partner proviene da un precedente matrimonio o da una precedente unione di fatto».[90]

 

Questa denominazione raggruppa tutti i nuclei familiari in questa parte citati, la famiglia ricostruita è composta e ricomposta a sua volta.

In passato esistevano queste forme di ri-unione, ma avevano delle sfaccettature diverse: dopo la morte di un coniuge era meglio risposarsi, spesso solo per una necessità economica e sociale. Queste famiglie ricostruite sono rappresentate in maniera molto forte nelle fiabe e nelle favole: Cenerentola, Biancaneve, Hansel e Gretel, tutte storie dove la famiglia è composta di un padre e dalla matrigna che, in tutte le fiabe, odia i figli acquisiti e vuole liberarsene perché “ingombranti”.

La famiglia ricostruita esisteva, ma quella presente nel nostro tempo è di diversa natura. Se in passato i bambini dovevano sostituire il patrigno o la matrigna con il genitore morto, oggi non si può parlare di sostituzione perché il genitore naturale nella maggior parte dei casi non è morto, per cui, il bambino deve, aggiungere una nuova figura alla triade familiare evitando di sovrapporre alla vecchia figura la nuova. Si pone così l’accento sui confini del rapporto con il nuovo compagno/a. In alcuni casi, i figli permettono al nuovo compagno di instaurare con loro un rapporto “quasi genitoriale” ma, al tempo stesso, ne gestiscono l’“entrata ed uscita” (Roberto Losso, Anna Packciarz Losso, 1997). 

 

 

         8.1 LE DIFFICOLTA’ LINGUISTICHE NELLE FAMIGLIE RICOSTRUITE.

 

«La famiglia ricostruita è un’ipotesi al tempo stesso ardua ed avvincente. Da una parte dimostra la vitalità dell’istituto familiare, la sua capacità di risorgere dalle proprie ceneri, dall’altra rischia di riproporre gli antichi conflitti»[91]

 

Le famiglie ricostruite hanno, come possibile problema di fondo, la denominazione dei suoi componenti. E’ difficile assegnare un nome, se non con cadenze dispregiative o peggiorative (matrigna, figliastra/o e patrigno), al nuovo entrato in famiglia; al tempo stesso, la nuova figura ha difficoltà nel descrivere la propria posizione nei confronti di possibili figli dell’unione passata. E’ anche difficile definire il ruolo, la relazione tra il padre (o la madre) sociale e il bambino nato nel primo matrimonio. Solitamente, in caso di separazioni in cui il bambino viene affidato al padre, la madre rimane (se non esistono problematiche gravi quali: tossicodipendenze o la prigione) presente in forma costante nella vita del bambino, cosicché il suo rapporto e quello di una possibile compagna del padre non si sovrappongano. In alcuni casi, i padri solitamente sono meno presenti, in questo caso il nuovo compagno della madre (stabilendosi in casa o con una presenza assidua) potrebbe dare vita con il bambino ad un legame affettivo più forte che con il padre naturale.

Un problema che, a mio parere, questi nuclei familiari devono risolvere, consiste nell’impostare posizioni e ruoli adeguati, tra i nuovi arrivati e i membri della famiglia. Un altro problema può essere la riattualizzazione della dimensione edipica. Nel bambino possono riattivarsi sentimenti di gelosia, tipici del complesso edipico dove il desiderio era quello di un rapporto esclusivo con il genitore del sesso opposto. La gelosia può essere provata però anche dal nuovo compagno che vede nel rapporto tra genitore e figlio una relazione unica e impenetrabile.

Le nuove figure che entrano nel nucleo d’origine (formato dalla diade madre-bambino; padre-bambino) non hanno a livello legislativo obblighi o diritti sul bambino. Questa situazione di neutralità giuridica da una parte limita il ruolo genitoriale, perché le decisioni non spettano al nuovo compagno, e, al tempo stesso, possono permettere un suo disinteressamento rispetto alla vita del bambino.

La mancanza di tutele sociali, rendono questa nuova unione pericolosa soprattutto per i figli nati in precedenza oppure nel nuovo rapporto.

I legami di “genitorialità non biologica” che si vanno creando, a mio parere, sono molto fragili perché ciò che è stato creato dal singolo individuo può anche essere disfatto, tutto sta alla volontà dello stesso. In tal modo, continue disgregazioni e unioni familiari possono contribuire a rendere incomprensibile, per il bambino, quale sia il vero nucleo familiare. 

Sembra che anche le pubblicità abbiano cambiato il target familiare. Non si trovano più solo le classiche famiglie del “mulino bianco” dove tutta, mamma, papà, nonni e i bambini, ridevano e pranzavano felici assieme; oggi, nelle pubblicità di prodotti alimentari, quali della Knorr (che incentra lo slogan: “innamorarsi in cucina”) e di Santa Lucia, con il mutare della famiglia tradizionale anche le famiglie qui rappresentate sono cambiate. Nella pubblicità del sugo Knorr si trova un bambino (solo con la mamma) che, mentre sta mangiando, chiede al nuovo compagno della madre, se gli vuole bene, se per lui farebbe di tutto: “Proprio come il mio papà”.  Un nuovo nucleo familiare, in particolare quello della famiglia ricostruita, si ritrova nella pubblicità delle croccole Santa Lucia dove, sempre nell’ambito di una cena, le due famiglie (mamma e figlio, papà e figlio) s’incontrano per la prima volta. Secondo questa pubblicità, il nuovo legame sarà reso meno complicato dal prodotto pubblicizzato: “Il buon umore che unisce tutti”.

In questa pubblicità oltre a presentare un nuovo universo familiare è sviluppato un nuovo tema, dove la coppia di genitori considera i propri desideri come una realtà condivisa[92].

Una coppia alle prese con la “seconda volta”[93] desidera che il progetto d’amore famigliare che investe la nuova coppia comprenda i rispettivi figli. I genitori in questa fase, spinti da un nuovo innamoramento, pensano che anche i figli desiderino il nuovo legame ardentemente come loro; perciò, si organizzano sempre più frequenti incontri, gite per permettere ai figli di raggiungere unioni fraterne, che difficilmente saranno come nei veri nuclei familiari, dove i genitori biologici sono uguali per tutti.

 

«Ma certamente, il caso delle famiglie”ricostruite” pone problemi assolutamente nuovi di definizione delle relazioni (…) tocca tutti ma in maniera ben più significativa i figli (…) I figli di queste nuove famiglie si trovano così ad affrontare complessi problemi di identificazione, problemi di carattere affettivo relazionale, di ordine simbolico, spesso complicati dalle incertezze e contraddizioni nelle quali si agitano i loro genitori o dalla difficoltà, da parte della rete parentale più allargata, a riconoscersi in situazioni estranee alla propria esperienza e alla proprie tradizioni  culturali e familiari»[94]

 

I rapporti reciproci saranno differenti rispetto alla famiglia tradizionale; ognuno deve avere i suoi tempi per poter organizzare e sentirsi parte della nuova famiglia. Questo percorso d’appartenenza sarà duro soprattutto per gli adolescenti e per i bambini che non hanno completamente elaborato la separazione o il divorzio dei propri genitori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAP.2

RELAZIONI FAMILIARI

 

1. RELAZIONI ALL’INTERNO DELLA FAMIGLIA

 

La famiglia al suo interno è composta da individui che hanno un loro assetto psichico, un’organizzazione inconscia, una narrazione passata, tutti aspetti individuali, ma plasmatisi in un contesto di gruppo quale è la famiglia. Ogni attore di un nuovo nucleo familiare si sistemerà la dove esperienze passate lo indirizzeranno.

La famiglia è riconosciuta come una “rete di relazioni fantasmatiche”[95], legate a specifiche relazioni inconsce, che vengono condivise dai suoi membri. Nell’universo familiare i ruoli mutano per una progressione dell’identità individuale, per una maturazione generazionale, «(…) la famiglia si costruirebbe come uno “spazio potenziale”, per usare una terminologia winnicottiana, in cui ciascuno può immaginare di essere in un rapporto di continuità tra sé e l’altro, in un rapporto di gioco (…)»[96]

Nella triade familiare vanno perciò instaurandosi logiche relazionali cariche di affetti, che si risolvono nell’evoluzione delle fasi, nel superamento del complesso edipico e con l’interiorizzazione di regole ed identità parentali.

«Eiguer individua tre tipi di organizzatori inconsci nel funzionamento psichico della famiglia:

- la scelta d’oggetto, ossia la scelta del partner, che dà via al costruirsi del gruppo familiare e che forma il gruppo interno gruppale, sulla base degli oggetti parentali interiorizzati (l’Edipo di ciascuno).

- il Sé familiare, articolato in tre sottorganizzatori: un habitat interno della famiglia, che rimanda ad un’immagine corporea (il corpo familiare come “pelle psichica” dell’individuo, di Anzieu); un sentimento di appartenenza, che rinvia al senso d’identità di gruppo; un’ideale dell’Io familiare, riferito alla progettualità del gruppo e alla sua proiezione nel futuro;

- i fantasmi condivisi, ossia il luogo di incontro dei fantasmi individuali all’interno del gruppo familiare (interfantasmatizzazione) ».[97]

In questa prospettiva psicoanalitica, il primo organizzatore della famiglia fa notare il primato dell’Edipo nella costruzione inconscia della coppia. Dove le vicende passate di desideri rimossi e angosce attualizzate danno luogo al costituirsi di un mondo oggettuale condiviso da entrambi i membri della coppia, “l’oggetto inconscio dell’uno si intreccia con l’oggetto inconscio dell’altro, e i due oggetti, cumulati tra loro, inaugureranno un mondo oggettuale condiviso, nuovo raggruppamento che assume così una dimensione organizzatrice” (Eiguer, 1983, p.29).

Il secondo organizzatore, Il Sé familiare, plasma il senso di appartenenza come unità gruppale, dove l’individuo viene modellato e si costruisce un’ideale dell’Io familiare che formerà le basi per la costruzione nel futuro di una famiglia, dando così nuove origini alla formulazione di rapporti inconsci che stanno alla base della vita familiare.

Infine, il terzo organizzatore, l’interfantasmatizzazione, invia alla presenza di un fantasma primordiale del gruppo familiare.

In questo spazio è data molta importanza alla scena primaria, che porta con sé la natura sessuale dell’identità della coppia e il suo inserimento nell’asse intergenerazionale; si riscoprono così l’attività procreativa e la nascita del figlio, che si colloca all’interno di una struttura fantasmatica predisposta ad accoglierlo.

Ogni individuo, a seconda della propria esperienza personale sente l’appartenenza al gruppo familiare. « La forma del rapporto fra la famiglia e i suoi membri è quella che Varela (1979, p. 101) definisce “dell’embricazione fra livelli”, cioè l’una emerge dagli altri e viceversa: perché la famiglia esista come unità è necessario che esistano gli individui, la cui identità si costituisce a propria volta nell’appartenenza  all’unità familiare»[98].

Si accentua in questo punto la natura circolare della famiglia, che caratterizza l’importanza delle relazioni interindividuali nel rapporto familiare, dove ogni comportamento individuale influenza (ed è influenzato da) quello di altri membri.

Analizzata in maniera particolare nella teoria sistemica (che considera la comunicazione alla base di ogni rapporto), «La famiglia viene studiata in base ad un modello esplicativo circolare, che pone l’accento sulla descrizione dei modi con cui si raccolgono ed elaborano informazioni e vengono anche rilanciati processi di trasformazione e cambiamento. Assumono importanza centrale i criteri di adattamento, flessibilità, apertura al cambiamento in relazione ai rapporti intergenerazionali, alla capacità di risolvere problemi e all’adattabilità e chiarezza comunicativa».[99]

Vorrei dare risalto ai molteplici modelli relazionali che ogni individuo assume nella sua storia familiare.  In una coppia appena sposata, i cui membri sono impegnati nella separazione dalle famiglie d’origine, si ritroveranno maggiori atteggiamenti di unione di quando la coppia dovrà invece far fronte alla ricerca di atteggiamenti di autonomia, oppure dopo la nascita di un figlio.

«Diversi autori hanno di volta in volta messo a fuoco modi di costruire la realtà che sono specifici di ogni singolo individuo, oppure che sono comuni a tutti i membri della famiglia, o che sono condivisi sul piano sociale. Emergono così tre livelli di analisi, strettamente interconnessi fra loro: Livello personale. Ogni componente dell’unità familiare dà senso alla propria esperienza e agisce nelle relazioni con gli altri a partire da un insieme di premesse e credenze personali che derivano dalla sua specifica posizione nel gruppo, dalle esperienze vissute precedentemente al formarsi della famiglia (per i membri adulti) o da quelle che vive nei propri rapporti con l’esterno. Livello familiare. Un sistema familiare, proprio per il gioco di influenze reciproche e di interdipendenza che lo costituisce, sviluppa, inoltre, un insieme di premesse o credenze condivise. Attraverso la comunicazione, i membri di una famiglia non si scambiano soltanto informazioni o messaggi, essi negoziano dei significati da attribuire a eventi e comportamenti, costituiscono identità individuali, collettive, definiscono ruoli e relazioni, sviluppano un modo specifico di organizzare la realtà (Pearce, Cronen, 1980; Cronen et al., 1982; Pearce, 1994). (…). Livello sociale. Una famiglia, infine, essendo parte di una comunità socio-culturale, condivide con questa sistemi di credenze che definiscono che cosa è accettabile e desiderabile in termini di comportamenti, ruoli e rapporti familiari.»[100]

Tutte queste credenze si mantengono e si trasformano attraverso le relazioni dei membri della famiglia, i diversi contesti, le identità che compongono il gruppo. Un esempio può essere quello dei ruoli materni e paterni che si sono formati per rappresentazioni originale nell’esperienza personale, che deriva dall’essere stati figli e osservatori dei comportamenti delle mamme e dei papà e del loro scambio relazionale.

“L’immagine di sé, ha origine nelle interazioni che un soggetto intrattiene nei primi anni della sua vita all’interno della famiglia di origine (…)” (Fruggeri, 1997,p. 71).

 

 

2.     CAMBIAMENTI STUTTURALI E RUOLI NEL NUCLEO FAMILIARE

 

Abbiamo assistito nella nostra epoca al cambiamento, all’evoluzione del sistema familiare, ma: « La sopravvivenza del sistema famiglia è l’esito di due processi intrecciati: quello morfostatico che ne garantisce la continuità e la stabilità nei confronti delle continue variazioni dell’ambiente circostante o interno, e quello morfogenetico che ne regola le trasformazioni».[101] 

Il primo processo, quello morfostatico, fa riferimento ai processi di costruzione dell’identità che ogni famiglia attiva, attraverso il sistema di credenze che i membri hanno  su se stessi, sui propri ruoli e la rappresentazione che hanno delle relazioni, mentre i processi morfogenetici ne regolano i cambiamenti al suo interno.

Queste due “forze” danno la possibilità alla famiglia di rimanere se stessa grazie alla sua capacità di mutare in relazione ai cambiamenti dei suoi componenti.

La trasformazione della famiglia non avviene solo nella forma, ma si assiste ad un cambiamento nell’asse dei legami relazionali, dove ogni modificazione nella posizione assunta da un elemento, produce effetti sulla struttura del gruppo familiare.

Assistiamo a cambiamenti radicali, come l’allontanamento dal nucleo familiare di uno dei genitori, la composizione di nuclei “multiparentali”, dove trovare la giusta posizione risulta più complesso.

«Le ricerche sull’immagine di famiglia nelle rappresentazioni condivise non sono molto numerose e si sono avvalse di metodologie e procedure abbastanza diversificate; tuttavia esse risultano interessanti poiché sono state condotte in periodi successivi, in vari Paesi occidentali (Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia, Italia), con campioni comprendenti soggetti di diversa età (bambini, adolescenti, giovani adulti) e appartenenti a differenti gruppi etnici (Powell et al., 1981; Gilby, Pederson, 1982; Pederson, Gibly, 1986; D’Alessio, Vinini, 1988, Mansfield,Collard, 1988; Rossi, 1990; Calvi, 1990; Levin, Trost, 1992; Marin, 1993; Newman et al., 1993; Ford, 1994)»[102]

I risultati di queste indagini mostrano che l’immagine di famiglia che rimane nell’immaginario occidentale è quella nucleare composta da due persone adulte, eterosessuale, con uno o più figli. Sempre in queste ricerche, però, sono introdotte dagli intervistati come famiglie anche le coppie di fatto con figli, le persone divorziate con figli e le famiglie ricostruite. Questi dati testimoniano anche i cambiamenti in atto, più incentrati sui ruoli intrafamiliari, piuttosto che la sua composizione. Grande importanza rivestono le relazioni tra i coniugi, si passa da una visone della dominanza maschile ad una concezione più paritaria della coppia, e il cambiamento tra genitori e figli non appare più solo dettato da regole istituzionali ma legato soprattutto allo scambio affettivo. Di conseguenza, i cambiamenti che da queste indagini risultano influenzare l’universo famiglia sono: «le rappresentazioni dell’identità di genere, dei rapporti fra i sessi, della maternità e della paternità»[103] .

Quello che dal mio punto di vista caratterizza le famiglie di oggi (siano esse tradizionali oppure monoparentali o allargate) è lo sviluppo delle identità dei singoli, la definizione dei ruoli e dei confini, la presa del potere e la regolazione tra distanza e vicinanza nei ruoli interpersonali.

«Le giovani coppie, infatti, prima di celebrare ufficialmente la propria unione con il rito civile o religioso, fanno quella che potrebbe essere definita la prova dell’intimità con l’altro. (…) Dalla prova dell’intimità, poi dal guardarsi l’un l’altro, il passaggio è verso la prova del fare famiglia, del guardare assieme in un’unica direzione. (…)paradosso delle trasformazioni culturali (…). Infatti, prima del desiderio, della ricerca e del concepimento del figlio, la coppia è più la somma di due individui in assetto narcisistico che si attendono, entrambi, che la coppia sia centrale a se stessa e in cui prevale quello che potrebbe essere definito il diritto della felicità. Ciò rende i legami molto più fragili e precari, in quanto più facilmente esposti all’intolleranza di delusioni e frustrazioni».[104]

Le famiglie contemporanee sono formate da individui che cercano forse prevalentemente un “assetto narcisistico”(M. Francesconi, D. Scotto di Fasano, 2004) per cui nella vita di coppia, hanno una sorta di difficoltà al sacrificio, essendo più orientati a soddisfazioni personali. Forse questa individualità esagerata tende a soffocare lo spirito di coppia, che sta e deve essere alla base della famiglia. Per costruire una buona “squadra”, quale che sia lo sport, tutti devono remare nella stessa direzione o non si vincerà.

Al tempo stesso la famiglia, non è una maratona ma un gioco di squadra,nel quale la coppia deve collaborare per superare gli ostacoli, siano essi gravi (come lutti, incapacità generative) o “di tutti i giorni”, essi infatti, se non risolti, possono minare nel tempo l’integrità della coppia. Forse proprio le identità descritte (che non è giusto generalizzare ma rappresentano una buona parte degli individui d’oggi) minacciano i rapporti a lungo termine, in quanto questi legami sono “più facilmente esposti all’intolleranza di delusioni e frustrazioni” (M. Francesconi, D. Scotto di Fasano, 2004) conducendo al sempre maggior numero di divorzi e separazioni.

Quello che, dal mio punto di vista, è più rappresentativo nelle coppie di oggi, è la difficoltà di diventare un noi restando ciascuno comunque un io, con le pretese e le esigenze del singolo. In alcuni casi la coppia di sposi, anche dopo il matrimonio rimane imprigionata in questa condizione egocentrica, senza problematizzare tale situazione, stando bene così. Il problema in questi casi è l’arrivo del figlio. Per queste coppie sarà difficile liberarsi del proprio ego narcisistico per donarsi completamente al nuovo arrivato.

«Questo decentramento della soggettività appare il nucleo centrale della funzione generativa, che, in fondo, richiede di porre tra parentesi temporaneamente il proprio status di soggetto indipendente: come in origine era “figlio di”, il soggetto, faticosamente arrivato a essere riconosciuto con un nome proprio, lo dismette per farsi “genitore di”. Nel momento in cui dà il nome a un figlio, “perde”- all’interno di questa relazione- il proprio  nome per farsi funzione, come ci ricorda forse la stessa parola “familiare”che deriva da famulus, servitore»[105].

Oggi la nascita del bambino non sempre viene accolta positivamente (in tutto e per tutto), a volte essa rappresenta un grande limite. La coppia in questo senso deve crescere, deve saper limitare all’interno della famiglia la propria individualità per inglobare nel migliore dei modi colui che la fa diventare tale. «Un figlio non è e non sarà mai un “altro qualunque”, è parte di sé, una parte da cui è molto difficile staccarsi, che è molto difficile lasciar andare, che si tende a tenere in ostaggio per plasmarla a propria immagine e/o immagine di ciò che si sarebbe desiderato essere/diventare, una parte destinata ad essere perfetta per ripagare di tutti i dolori, le frustrazioni, le amarezze sofferte».[106]

La coppia di genitori deve imparare a ridurre, soprattutto in presenza del terzo, il proprio assetto individuale per trovare uno spazio né troppo grande (poiché disperde), né troppo piccolo (poiché soffoca) per contenere il bambino. Il contenitore genitoriale deve assume la giusta grandezza per contenere tutti i membri della famiglia, garantendo un assetto ottimale alle relazioni.

 

«Per contenimento si intende quella funzione psichica per cui, all’interno di una relazione, un soggetto si presta ad accogliere contenuti mentali a forte tonalità emotiva di un altro soggetto, generalmente senza esserne almeno al momento consapevole,  ma riuscendo ad ammorbidirne la quota ansiogena, raffreddando la temperatura troppo elevata dell’emozione anche a vantaggio della originaria emittente».[107]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUARTA PARTE

IL RUOLO EDUCATIVO E CONTENITIVO DELLA FAMIGLIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAP. 1

LA FAMIGLIA: QUALE CONTENITORE OGGI?

 

1.     RELAZIONE CONIUGALE E RUOLO GENITORIALE

 

«La cura responsabile è iscritta nel fatto che la relazione tra genitori e figli è di tipo gerarchico; tocca perciò alle generazioni precedenti di rispondere delle condizioni che creano per quelle successive»[108].

 

Con il primogenito si apre una nuova pagina della storia familiare. Il nuovo ruolo, quello genitoriale, permette alla coppia di fare esperienze nuove e di collocarsi in un universo pieno di novità, che metterà alla prova la stabilità della coppia e la capacità del singolo di limitarsi per il bene familiare.

Il ruolo di genitori è la conferma della coppia come continuatrice della responsabilità della funzione creativa: «Preparatoria a ciò si pone l’esperienza della “preoccupazione” nel senso di Winnicott del prendersi cura e accettare responsabilità. Responsabilità è l’impegno di crescere individui felici»[109].

Dopo la nascita del bambino, è importante per i neo-genitori crearsi un’identità genitoriale che dia loro modo di instaurare un rapporto, con il bambino e tra di loro, che garantisca l’elasticità necessaria per superare i problemi della vita quotidiana.

Wilma Binda (1999), in Percorsi della genitorialità materna e paterna, pone l’accento sull’importanza della definizione coniugale dopo la nascita del figlio e, in particolar modo, su due aspetti:

1. quale sarà la loro nuova identità relazionale: cosa cioè essi come coppia di genitori decidano di accettare e imbarcare nel nuovo viaggio familiare. Questo aspetto sottolinea lo stile che i nuovi genitori intendono assumere per la gestione della vita educativa del figlio.

2. che cosa vogliono utilizzare, far passare e far ereditare delle famiglie d’origine al figli: quali modalità di essere genitori apprese nelle loro famiglie d’origine vogliono utilizzare. Non bisogna mai dimenticare che i genitori sono stati figli e dalla loro esperienza passata nascerà il genitore del presente.

Ogni soggetto affronta percorsi differenti nel diventare genitore, ogni individuo deve riuscire a rispondere sia ai bisogni del bambino sia a quelli del partner sia ai propri, tenendo presente che tutto avviene in un momento di cambiamento: per questo è necessario avere la capacità di ristabilire un’armonia tra le mura domestiche. L’equilibrio, che si dovrà riformare dopo la nascita del figlio, deve essere ricercato da entrambi i coniugi, creando così «un’alleanza genitoriale tra coniugi (Cohen-Weissman, 1984) che indica l’aspetto di investimento comune e condiviso da parte dei coniugi nel futuro loro, della coppia e della storia  familiare.»[110]

Importante, nel diventare genitori, è anche la percezione delle proprie capacità nell’esserlo. A tale proposito, una ricerca condotta da Binda nel 1997, con la collaborazione di un’equipe di ricercatori del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano, ha utilizzato un impianto metodologico longitudinale e quali-quantitativo. Questa ricerca analizza il passaggio dalla diade alla triade familiare, individuando le aree di funzionamento familiare che contribuiscono maggiormente a formare l’identità genitoriale. Il campione è formato da 60 coppie (60 madri e 60 padri) con un’età media delle mogli di 29,5 (range di età tra i 17 e i 37 anni), dei mariti di 32 (range di età dai 26 ai 44 anni). La parte quantitativa della ricerca è stata eseguita attraverso questionari self-report somministrati a mariti e mogli in due differenti versioni e in due tempi distinti (prima della nascita: 6-7° mese di gravidanza; dopo la nascita: 4°mese di vita del bambino). Sono state utilizzate quattro scale: percezione della competenza genitoriale, scala di autostima (di Rosemberg), scala sul funzionamento delle famiglie d’origine, scala di soddisfazione globale.

Nella ricerca si è osservato che i valori di competenza sono sensibilmente modificati, quasi sempre positivamente, dopo la nascita del figlio, perché il genitore verifica di essere concretamente in grado di prendersi cura del bambino.

«E’ stato, infatti, interessante verificare, nel momento in cui concretamente emerge, il processo di costruzione da parte della coppia della propria competenza genitoriale, che in questa ricerca è stata misurata come percezione della propria efficacia nella competenza come genitori. Mettere in relazione i diversi tipi di percezione che i neopadri e le neomadri hanno di sé attraverso il livello di autostima, del nuovo ruolo ricoperto con la percezione della propria competenza genitoriale, della relazione con la propria famiglia d’origine e della soddisfazione globale di vita (…) La “verifica” offerta dal benessere del neonato, che conferma la capacità di rispondere ai suoi bisogni da parte dei genitori, ha un evidente impatto sulla loro percezione della capacità di essere efficaci ed efficienti, cioè competenti nell’occuparsi del figlio e nell’instaurare con lui una relazione calda e armoniosa»[111]    

Le aspettative di essere un “buon genitore” cambiano infatti prima e dopo la nascita del bambino: prima della nascita dipendono per lo più dall’autostima individuale, dopo essa il grado di competenza diventa invece tangibile: ci si rende conto di riuscire a soddisfare  i bisogni del neonato, da qui aumenta il livello di “competenza, soddisfazione” del genitore.

In questa ricerca viene inoltre rilevata l’importanza di costituire l’alleanza genitoriale, che permette ai coniugi di attuare una visione condivisa della realtà, tramite la quale si sostiene la crescita del bambino.

 

 

2.     LE FUNZIONI EMOTIVE DELLA FAMIGLIA

 

« Dato che ciascun membro di un gruppo familiare - nucleare o allargato che sia - può essere studiato dal punto di vista della struttura profonda della sua personalità, è evidente che molti e diversi principi regoleranno l’organizzazione familiare, creando così ambienti molto diversi per la crescita e l’educazione dei figli».[112]

 

La crescita di ogni membro della famiglia, in particolare dei figli, comporta una funzione di contenimento da parte dei genitori che diventano, così,  il fulcro dell’ordinamento familiare.

Seguendo le linee guida della teoria di D. Meltzer e M. Harris, «possiamo considerare come cardine della teoria psicoanalitica l’assioma secondo cui non può esserci sviluppo senza sofferenza»[113]. Proprio seguendo il principio attraverso il quale non c’è sviluppo senza sofferenza, questi autori considerano presenti nelle funzioni emotive della famiglia aspetti contrastanti:

Generare amore: questo aspetto è fondamentale per creare quel clima di fiducia e di sicurezza che rende possibile una situazione di dipendenza. «Per questo motivo è importante che la persona amata sia capace di aiutare coloro che dipendono da lei a tollerare la sofferenza che provano nel doversi sentire inferiori e bisognosi, e sappia concedere loro spazio e un tempo sufficiente prima di intervenire in loro aiuto»[114].

Contrapposta a questa funzione vi è quella di Suscitare odio: essa comporta un attacco ai legami di amore e sottolinea i sentimenti che nascono dalle frustrazioni. La distruzione prevale rispetto alle forze costruttive le quali comportano più sforzi a livello di energia.

Infondere speranza: la prevalenza delle forze costruttive su quelle distruttive comporta la nascita di ottimismo e speranza. «Perché sia possibile mantenere un clima di speranza all’interno, di una famiglia occorre perciò che qualcuno dei suoi membri sia capace di mantenere il senso delle proporzioni»[115].

Opposta la funzione di Seminare disperazione: essa dà maggior spazio a sentimenti pessimistici, il sistema familiare appare troppo rigido e immodificabile oppure le forze distruttive appaiono soverchianti.

Contenere la sofferenza depressiva: la funzione di contenere e modulare la sofferenza spetta solitamente ai genitori. Il contenimento, di questa sofferenza, è una funzione fondamentale per il buon funzionamento familiare, deve permettere ai figli «di “apprendere dall’esperienza”, quando questo non avviene vedremo svilupparsi all’interno del gruppo delle forze di frammentazioni»[116]. Trasmettere ansia persecutoria: le funzioni genitoriali risultano deboli e incapaci di contenere sentimenti catastrofici che verranno dispersi nell’ambiente familiare.

Pensare: la funzione di pensare deve essere svolta per i bambini piccoli, dai genitori. In contrapposizione, Creare bugie e confusioni: l’incapacità da parte del genitore di donare la funzione di pensiero al bambino produrrà bugie e confusione in lui e nella vita familiare. «La bugia è considerata da Bion la funzione intenzionale lesiva del pensare. L’atmosfera di insicurezza che si viene a creare indurrà atteggiamenti di cinismo nei confronti del valore della verità, avvelenando l’etica della vita familiare»[117]. Le bugie possono distruggere una famiglia.

Tutte le funzioni “positive” si avvicinano al concetto di famiglia come contenitore, nel quale dev’essere possibile elaborare, non modificare, le dinamiche.

La funzione genitoriale è infatti ricollegabile alla funzione di un contenitore, che deve modellare e aiutare il bambino nel suo sviluppo. Winnicott (1965) parla della funzione di contenimento empatico (holding) svolta dalla madre, che consente al bambino di passare dalla dipendenza assoluta, all’indipendenza: «Winnicott afferma ripetutamente che il suo discorso sulle cure materne include i padri»[118]; infatti, anche il padre svolge, indipendentemente dal fatto che sia reale o solo un soggetto che incarna il suo ruolo, una funzione fondamentale per lo sviluppo del bambino: è un modello limite che fornisce confini con regole e rende umana la madre, che per il bambino è inizialmente dotata di caratteristiche magiche. La figura paterna garantisce inoltre, con la sua presenza, la differenziazione e, al tempo stesso, la comprensione degli oggetti interni ed esterni, come le figure che compongono la famiglia.

La funzione di contenitori deve essere svolta, a mio parere, dalla coppia genitoriale soprattutto in quelle situazioni di disgregazione familiare quali divorzi e separazioni, che privano il figlio di un confine rappresentato dal “contenitore reale”, dalla famiglia con mura domestiche. Minare la funzione contenitiva è assai pericoloso:

«Genitori pronti a definire “una ragazzata” il lancio di sassi sull’autostrada, ad individuare nella colpa o nell’errore dell’insegnante la ragione di anche piccoli insuccessi scolastici (un pestaggio punitivo di un insegnante ad opera di un genitore è stato un caso estremo e delinquenziale, ma quante sono le aggressioni verbali dirette o indirette che passano sotto silenzio?), sembrano aver portato all’eccesso la comprensione e il contenimento, auspicati e estremamente necessari, purché non trasformino l’holding  in un folding collusivo e confusivo».[119]

E’ importante che la funzione di contenitore, fondamentale per la crescita del bambino, non si trasformi oggi, con il cambiamento della famiglia e del comportamento genitoriale in un arma a doppio taglio. Il rischio è che la responsabilità genitoriale, che dovrebbe segnare il giusto percorso, si trasformi, per il figlio, in un labirinto pieno di compiacimenti e senza regole.

 

 

3.     RESPONSABILITA’ GENITORIALE ED EDUCAZIONE DEI FIGLI

 

«Lo ripeto: l’educazione dell’uomo comincia dalla nascita; prima di parlare, di capire, egli si istruisce già. L’esperienza previene le lezioni»[120].

 

La funzione fondamentale dei genitori è quella di costruire per il bambino uno spazio delimitato nel quale la sua crescita sia tutelata e promossa in ogni suo aspetto, sia progressivo che regressivo. Le figure genitoriali dovranno favorire il passaggio dalla dipendenza materna all’indipendenza, modulandone l’allontanamento e facendosi trovare sempre pronti nelle varie situazioni, dall’incoraggiamento alla sperimentazione di sentimenti negativi da parte dei figli nei loro confronti. Tali sentimenti scaturiscono quando il genitore detta leggi senza ammettere spazio al volere del bambino. Oggi i genitori tendono invece a mediare con il bambino per ogni questione: se un tempo imponevano l’ora della nanna, oppure quanto tempo bisognava stare davanti alla televisione, ora invece chiedono al piccolo: «“Allora, vuoi andare a dormire?”, ripetendo poco dopo la domanda: “Cosa dici, andiamo a nanna?”, come se le decisioni dipendesse dal suo desiderio.

Ma non possiamo lasciare il bambino in balia di desideri erratici, mutevoli, contradditori che da solo non sa né può gestire. Meglio metterlo di fronte al fatto inappellabile che a una certa ora si va sempre a letto.

A tal fine il genitore deve essere capace, in certi frangenti, di sostenere l’odio e la rabbia del bambino»[121].

Delegando al bambino la decisione, si rischia una dispersione del compito genitoriale, poiché la continua scelta da parte del bambino lo porterà ad imporsi nei tempi e nei modi. Quando il genitore coinvolge attivamente il bambino nella presa decisionale, auto-limita la propria posizione di educatore:

L’adulto, il genitore, l’educatore non possono abdicare alla loro funzione perché ciò significa non fornire a chi cresce la ‘visibilità’ della propria soggettività, cioè non fornire un esperienza di scambio, di ‘dualità esperienziale’. Scambio che può declinarsi in incontri e/o scontri, entrambi ingredienti ineffabili della soggettività umana” (Francesconi M., Scotto di Fasano D., 1999)[122].

Una volta data via libera al bambino, sarà difficile imporsi di nuovo come tutori della sua vita. Peggiore è tuttavia la situazione nella quale il genitore oscilla contraddittoriamente tra il voler decidere per il bambino e il concedergli la possibilità di una scelta.  Questa delega rischia, come ricorda Silvia Vegetti Finzi (2001), di “lasciare il bambino in balia di desideri erratici, mutevoli, contradditori”. Il bambino viene lasciato così senza barriere resistenti che lo possano tutelare e si permette che si ritrovi in balia delle proprie decisioni, e delle conseguenze delle stesse. Nell’esempio sopra citato (la decisione circa l’ora della nanna), ipotizzando che il bambino sia andato a letto troppo tardi, al risveglio il genitore potrebbe dirgli: “vedi, sei voluto andare a letto tardi e adesso non ti vuoi più svegliare”, facendo notare al figlio le conseguenze della propria decisione. La colpa data al bambino a mio parere è un errore, denota un’immaturità genitoriale che investe il bambino degli errori dei genitori. Il desiderio del bambino di stare sveglio indica la voglia di restare il più possibile con la sua mamma e il suo papà, desiderio di riscattare il tempo che gli è stato sottratto dal lavoro dei genitori e dalle lunghe ore trascorse all’asilo e non può prodursi nella su colpevolizzazione. Educare il bambino vuol dire imporre delle regole che devono essere rispettate da entrambi, figlio e genitore.

Il dialogo deve essere aperto, ma con i ruoli ben definiti in ogni età, dall’infanzia all’adolescenza, periodo in cui il genitore deve essere amato ma al tempo stesso “odiato” perché tutore delle regole.

 

 

 

 

 

 

 

 

4.     I GENITORI DELLA NOSTRA EPOCA

 

I genitori moderni sono chiamati a ricoprire ruoli molto difficili, in alcuni casi non sono pronti a sobbarcarsi responsabilità che non siano legate a bisogni personali e un figlio tende a decentrare le attenzioni di coppia.

Il ruolo educativo non viene, a volte, adeguatamente ricoperto non perché i genitori siano incapaci di educare ma, a mio parere, perché ne mancano la voglia e il tempo. I genitori spesso non sono altro che persone stanche che, tornate dal lavoro, vorrebbero avere un po’ di tempo per sé, e perciò accontentano ogni richiesta del bambino purché non disturbi la loro quiete. Quando si vuole fare l’educatore “discontinuo”, si utilizzano le regole quando sono “comode”, cadendo così in contraddizione. Non tutta la categoria dei genitori risulta nella nostra epoca scadente, ma in alcuni casi il ruolo genitoriale è cambiato e non solo per demeriti personali ma anche: per le lunghe giornate lavorative e scolastiche. I lunghi periodi trascorsi dai bambini in asili nido e scuole materne lasciano poche ore alla sera per trascorrere un po’ di tempo assieme. Durante queste ore i genitori per lo più “chiudono gli occhi” e non fanno rispettare le regole, oppure pretendono rigore e tranquillità dal bambino che, molte volte, desidera giocare, parlare, con mamma e papà, ma rischia di essere percepito come assillante o maleducato.

I genitori che lavorano a tempo pieno sono una gran percentuale nel nostro Paese, questo vale per gli uomini e per le donne. Si tratta sovente di genitori molto attenti, che affidano il bambino a persone di fiducia, quali i nonni, le educatrici degli asili oppure alle nuove figure delle “tate”, che curano il bambino fino al ritorno dei genitori.

Il ruolo e la funzione della madre sono particolarmente intensi, ma ridotti nel tempo, proprio per motivi lavorativi.

A mio parere, il tempo che dovrebbero trascorrere assieme il bambino e il genitore, oltre ad essere qualitativamente buono, dovrebbe essere anche di una certa quantità, perché in poco tempo non si riesce, anche desiderandolo, a donare l’amore e a svolgere il ruolo educativo che tanto serve ai bambini. E’ importante che il genitore sia presente quando il bambino ne richiede la presenza e non solo quando ciò è possibile. Molte volte le richieste dei bambini sono esplicite, altre invece possono risultare nascoste, ma il genitore attento dovrebbe comprendere comunque:

 

« La “famiglia frettolosa” deve massimizzare il tempo come la più preziosa delle risorse. Rinuncia perciò a riprendere, sgridare, punire, perdonare il bambino. Perché sciupare in dissidi le poche ore del giorno trascorse insieme? Come darle torto?»[123]

 

 

5.     EDUCAZIONE MASCHILE E FEMMINILE

 

Ogni soggettività in costruzione ha bisogno di molteplici aspetti per potersi creare in armonia con il sesso d’origine. A tale fine, sono importanti: le condizioni biologiche naturali, la cultura, le identificazioni con le figure genitoriali o di riferimento.

In questi termini, il modo di relazionarsi  con il bambino/a delle madri moderne rispetto a quelle del passato risulta solo superficialmente diverso.

Con la femminuccia, la mamma si lascia andare ad un legame più tenero e caratterizzato da un affetto più concreto, con coccole manifeste, mentre con il maschietto risulta più “fredda”, in altre parole non lo ricopre di baci e carezze per manifestargli il proprio amore, che esibisce in maniera differente poiché, è più “pudica”:

 

 “E’ come se ci fosse tra madre e figlio, una barriera invisibile, che impedisce i contatti troppo intensi e prolungati. Questa minore intimità è dovuta in parte al timore che il limite fra la tenerezza materna e la sessualità sia più labile, col maschio: baci, carezze, evocano più facilmente la ripetizioni di gesti che appartengono alla sessualità adulta, mentre con la bambina si associano di più al rapporto vissuto nell’infanzia con la propria madre”(Vegetti Finzi S.,1999).[124]

 

Anche nel gioco si possono notare differenze nell’appartenenza di genere: al maschio sono concessi giochi più violenti e agitati, mentre per le bambine si prediligono giochi d’imitazione delle situazioni domestiche, quali cucinare, vestire le bambole e arredarne la casa.

Anche nella scelta degli sport si possono riscontrare diversità sessuali e preferenze, da parte dei genitori, nel coinvolgere i figli in uno sport piuttosto che in un altro in modo funzionale non tanto al piacere del bambino stesso ma, piuttosto, alla sua identità sessuale.

Per le bambine vengono scelte attività quali la danza, la ginnastica o il nuoto, uno sport che non ha valenze sessuali particolari, mentre nel campo maschile gli sport di squadra sono i favoriti.

I genitori rimangono il perno della soggettività sessuale dei propri bambini, per i loro atteggiamenti, per le scelte e, soprattutto, per il loro ruolo educativo. Essere educatori significa anche imparare ad esserlo e migliorare apprendendo dall’esperienza.

 

 

 

 

 

 

6.     IL FIGLIO “ESSERE” DI PAROLE

 

«L’amore da solo non basta, ci insegna la Dolto, ad accostarci armonicamente ai bambini. L’amore che noi adulti nutriamo nei loro confronti è intriso di narcisismo, poggia su aspettative che si radicano nella nostra storia, che esprimono il nostro sistema di valori. Non è pertanto sufficientemente rispettoso delle unicità e della autonomia del bambino, del suo essere radicalmente “altro”»[125].

 

I figli molte volte sono investiti da sentimenti narcisistici dei genitori, è chiesto al bambino di fare quello che l’adulto percepisce come il meglio per lui, in alcuni casi nel bambino si vedono possibilità future di un riscatto del proprio passato: «Come dice Freud, un figlio è la parte migliore di noi, un po’ quello che ci permette di ottenere ciò che la vita ci ha negato, di risanare certe ferite. E’ un po’ come una seconda opportunità, attraverso la quale cerchiamo di portare a compimento il progetto della nostra vita»[126].

Questa visione, centrata sull’adulto verso il bambino, lascia pochi spazi per un dialogo importante e necessario alla crescita del figli. Non sempre ci si ferma ad ascoltare i bambini, a donargli del tempo, che a loro spetta di diritto, per condividere problemi, sentimenti, emozioni positive e negative. In alcuni casi al bambino sono solo dette delle cose, ma non si ha mai il tempo di ascoltarlo. Si parla molto del bambino, di quello che fa, di quello che sarebbe meglio per lui, ma sembra che il tempo non sia mai sufficiente per parlare con lui di lui. Fin da piccoli i bambini, come ci ricorda Dolto, “sono esseri di linguaggio”. Il linguaggio si compone di tutte le azioni comunicative (anche di tipo non verbale) che permettano di esprimere i propri desideri. Quando un bambino piccolo piange, protrende una mano, vuole comunicare qualcosa al genitore, e quando il non-ascolto si protrae nel tempo, il bisogno che ne deriva si manifesta tramite il sintomo, come dolori alla pancia, vomito, e diarrea, tutti atti comunicativi rivolti all’adulto, il quale a volte è cieco e sordo e non comprende il bisogno di condivisione del figlio. Questo tipo di linguaggio non verbale è l’unico che il bambino conosce prima di acquisire la parola. In alcuni casi, questo linguaggio non verbale non è ascoltato, perché l’adulto è troppo impegnato nella sua vita, che limita lo spazio del dialogo con il figlio, ad esempio ritagliando per esso solo i momenti dopo cena, che rimangono di breve durata e molte volte carichi di tensione e aspettative non sempre realizzabili.

 

«L’esperienza del neonato ruota attorno alla necessità di essere compreso dalla madre e al conseguente timore di essere frainteso o ignorato. Data la sua radicale insufficienza, queste due polarità vengono a coincidere, per lui, con la vita e con la morte. Troppo spesso gli adulti non comprendono questo bisogno primario, più essenziale dell’alimentazione stessa, trattando il neonato come una cosa. Parlando di lui, osserva la Dolto, ma mai con lui»[127]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7.     I BAMBINI SONO CAMBIATI.[128] E GLI ADULTI?

 

«“Cambiati rispetto a chi?” ai loro genitori, naturalmente, adulti cresciuti negli anni ’60, in un’Italia provinciale, stupita e appagata del miracolo economico. In quel decennio molte mamme sono ancora casalinghe, il figlio unico una realtà, le strutture scolastiche non abbastanza a recepire il boom delle nascite e i bambini vanno a letto subito dopo carosello»[129].

 

Nella nostra epoca, dominata da figure anziane, i bambini sono pochi, pochissimi, e sono sempre di più le figure di adulti che accontentano ogni loro capriccio, con  completa devozione, che non può essere divisa con fratelli perché la maggior parte sono figli unici. Questa condizione di attenzioni “estremizzate” porta però ad un rallentamento del superamento dell’egocentrismo infantile. Il primogenito, a volte l’unico, riceve tutte le attenzioni e si trova in un universo di adulti accondiscendenti che, sotto alcuni aspetti, viziano e non preparano il bambino alla vita comunitaria, soprattutto alla vita paritaria con i coetanei.

I bambini che fino ai tre anni vivono “chiusi” in casa con persone adulte sperimentano un mondo “surreale” non paritario, che non corrisponde alla realtà dove l’adulto è disposto a donare tutto, dal gioco, alla caramella all’ultima fetta di torta. Questa posizione privilegiata del bambino, che non deve chiedere perché tutto è già suo, lo penalizza nelle poche relazioni con i coetanei, che solitamente si svolgono al parco giochi e sempre sotto lo sguardo vigile e protettivo di un adulto.

Invece, i bambini che vivono quotidianamente all’asilo nido esperienze con i coetanei, sono più smaliziati, meno capricciosi. L’inserimento alla scuola materna è molto più difficile per un bambino che ha vissuto i suoi primi tre anni avvolto dalle attenzioni di adulti, che otteneva tutto, e dove ogni gioco, oggetto, attenzione erano solo suoi. Questi bambini si trovano impreparati, anche per pigrizia del genitore, ad affrontare “la giungla” dell’asilo, dove la palla, la bambola, la maestra non è più solo “mio”, ma è divisibile, di tutti. Il bambino risulta perciò incapace, i primi tempi, di vivere questa realtà troppo dura, rimpiangendo le giornate passate a casa, dove esisteva un solo re/regina: lui/lei.

I primi tempi, questi bambini porteranno con sé un oggetto, un gioco, qualcosa di casa da non dividere con nessuno perché “mio”.

I bambini sono cambiati, perché nell’attenzione degli adulti, a mio parere, manca dell’autocritica: per non creare problemi, preferiscono accontentare il bambino all’estremo, con doni e compromessi, che purtroppo non ritroverà quasi mai nella vita sociale. Così facendo, costruisce attorno al bambino un “universo irreale” che gli maschera le difficoltà della vita. I bambini di oggi hanno tutto e voglio sempre di più, perché è difficile accontentarli.

Mi è capitato di sentire mamme stupite dell’atteggiamento dei propri bambini: lettere di Natale troppo lunghe, giochi non desiderati perché realmente voluti ma solo perché pubblicizzati o perché scritti da altri amichetti nella lettera a Babbo Natale. Una mamma racconta che la sua bambina, il giorno di Natale, dopo aver aperto gli innumerevoli doni ricevuti, abbia chiesto perché un certo dono, visto in tele la sera prima, non fosse arrivato, svalutando così la grandissima quantità di doni ricevuti.

Dal mio punto di vista, non ci si deve stupire di tale richiesta perché, involontariamente, i genitori contribuiscono a questo tipo di atteggiamento donando cose materiali senza limiti, senza domandarsi se in realtà, dietro la richiesta del bambino, non si celi il bisogno di qualcosa di non corporeo, ma più importante, come la presenza più costante e l’amore di mamma e papà.

I bambini di oggi  sono anche molto più “svegli” rispetto ai genitori alla loro età, sanno già a tre anni, se non prima, usare il telefono, la televisione, il videoregistratore e addirittura il computer. Questa emancipazione del bambino avviene grazie ai continui stimoli ai quali il mondo degli adulti lo sottopone. Come ci ricorda Silvia Vegetti Finzi (1998): “In sé il bambino è sempre lo stesso, come da versanti diversi lo hanno descritto Freud e Piaget, ma deve far fronte a situazioni nuove perché gli adulti sono cambiati. Le coppie sono ben più paritetiche che in passato, i ruoli familiari scarsamente definiti, i compiti di cura più o meno condivisi (o almeno dovrebbero esserlo)”[130]

La figura del bambino del presente, a cui non manca niente e che ha forse troppo a livello materiale, è originata anche da questo tipo di genitori troppo impegnati, ripiegati su se stessi e sul lavoro, che accontentano i loro piccoli “re”- sua Maestà il Bambino di freudiana memoria, pur di farli sentire felici e contenti, ma che donandogli tutto non sempre sopperiscono alle loro mancanze emotive.

 

«Ciò che appare decisamente un pericolo oggi è che, a fronte di una diffusa fragilità di coppia, venga meno, per un numero sempre più elevato di bambini, l’esperienza stessa di avere un padre e una madre»[131]

 

Se nel passato il padre aveva il ruolo di tutore delle regole e garantiva il ponte con l’esterno mentre la madre era la cultrice dell’educazione infantile e preparava nel migliore dei modi, all’interno della famiglia, i ragazzi per entrare nel mondo, oggi questa realtà genitoriale è drasticamente cambiata.  Le coppie di genitori sono sempre più fragili, non vogliono in nessun modo perdere l’amore delle loro creature e, piuttosto che sgridarli e passare come “gli uomini neri”, preferiscono sorvolare.

La figura materna, sempre attenta alle esigenze del figlio, pronta a rinunciare alla propria vita sociale (non in senso lavorativo) e a dedicarsi “anima e corpo” al bene familiare, è, in parte, passata di moda, lasciando il posto a donne sempre più stanche, che parlano della bellezza di avere un figlio ma, al tempo stesso, di non averne più di uno, che condividono i compiti familiari con i mariti, oggi più partecipi nella vita casalinga. I padri a volte diventano così “mammi”, perché le mogli, grazie all’emancipazione femminile, sono troppo impegnate nell’adempiere ai compiti lavorativi e sociali e delegano al marito alcuni doveri che spettano alla donna di casa: cucinare, fare la spesa, la curare i bambini. In tal modo il padre si toglie dal ruolo di unico canale di comunicazione con il mondo esterno.

L’inversione o i cambiamenti di ruoli rischiano di fare collassare il triangolo edipico?

«I padri attuali evitano dunque di cadere sotto i colpi dei loro piccoli, ma minacciosi, Edipi grazie alla soppressione del ruolo paterno? Il triangolo edipico sembra collassato per opera di una “giocastizzazione” di Laio (non priva delle correlate responsabilità: Stewart 1992), divenuto incline a competere più con la moglie che con il figlio. Ma semplici capovolgimenti di ruolo, come è noto, mantengono inalterate le dinamiche di fondo. Né omologazione femminile né arroccamento schizoide risolvono in una vera relazionalità la lotta fra i sessi e le funzioni parentali (Mariotti, 1995). 

A noi sembra che solo attraverso il mantenimento di una funzione genitoriale come relazione armonica fra oggetti interni sufficientemente adulti si possano avere antidoti all’attuale crisi dell’universo familiare. Occorre evitare la formazione di un bastione (Baranger, 1961) collusivo fra le esigenze di genitori desiderosi di retrocedere di una generazione e dei figli inclini a misconoscere la necessità di esprimere l’apprendimento con le sue incertezze e le sue frustrazioni»[132]

Nell’universo familiare, la collaborazione tra la coppia è di fondamentale importanza per sopperire al meglio alle esigenze familiari, così i ruoli si fanno più elastici; il loro cambiamento però deve essere riequilibrato quando si parla dell’educazione genitoriale, garantendo al bambino persone adulte che riescano a collocarlo e a collocarsi in posizioni adatte per lo sviluppo armonico suo e della sua personalità.

La famiglia è cambiata, per via e con i suoi componenti, poiché i tempi, i modi e le posizioni sono mutati, si sono evoluti, ma, per accettare e sviluppare al meglio queste situazioni, ogni componente adulto deve dare il meglio, prima all’interno della propria famiglia e poi verso l’esterno, per garantire al bambino il luogo migliore dove poter crescere ed acquisire un’identità stabile, sicura e non frammentata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUINTA PARTE

OLTRE IL MATRIMONIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAP. 1

SEPARAZIONE & DIVORZIO

 

 

  1. LA CONCLUSIONE DI UN RAPPORTO

 

Nella nostra epoca vi è un rapido incremento del numero delle separazioni e dei divorzi, che giustifica preoccupazioni di tipo sociale, educativo e psicologico; ma, al tempo stesso, esso raffigura, come uno specchio, i principi che regolano la società contemporanea.

 

«Da un lato il pluralismo valoriale moderno favorisce l’aumento dei divorzi: ottenere la separazione legale è diventato più facile negli ultimi anni e le resistenze alla separazione coniugale legale a motivi religiosi sono molto meno forti; d’altro canto però esiste un ostacolo di tipo economico alla divisione del nucleo familiare e al mantenimento di due abitazioni»[133]

 

Bisogna rilevare che, da ogni punto di vista, il divorzio rappresenta una realtà che nasce da una profonda e imprevedibile crisi interna del soggetto e dell’equilibrio della coppia. Oggi, più che nel passato, le crisi coniugali vengono risolte con la separazione. Ogni rottura porta con sé l’elaborazione del lutto, per cui solo se  l’Io elaborerà le angosce passate, sarà in grado di inaugurare nuovi progetti di vita per il futuro.

Ogni matrimonio è unico perché i suoi membri sono differenti, per questo motivo anche le motivazioni di una separazione non possono essere uguali per tutti.

Come ricorda Silvia Vegetti Finzi:

«il matrimonio è in crisi non perché i suoi protagonisti hanno particolari problemi psicologici, ma perché per certi aspetti la sua forma è obsoleta. Continua a riprodursi in quanto risponde, (…), a bisogni profondi, ma la sua gestione può risultare impossibile in quanto confronta i coniugi con una duplice contraddizione.

Innanzitutto entrambi sono impegnati in una realizzazione di sé, in una messa a punto della propria identità che richiede un forte investimento narcisistico sull’Io. Al tempo stesso debbono però convergere in un progetto comune, sulla costituzione di un “noi” che richiede di sacrificare, almeno in parte, la propria singolarità»[134].

 

Nel mondo d’oggi è difficile costruire un “noi, poiché la centralità dell’Io sta diventando predominante. Anche l’identità dei suoi componenti è in continua evoluzione, soprattutto quella femminile, che, emancipata, non accetta più, giustamente, un ruolo marginale e subordinato. La difficoltà del nuovo matrimonio sta nel trovare un equilibrio, che comporta sacrifici per entrambi i coniugi. La contraddizione nasce dalla messa a punto individuale, non ancora matura, che si scontra con la necessità nella coppia di sposi di costruire un mondo comune dove solo con sacrifici di tutti e due, il cammino risulta possibile.

Con il divorzio, affiorano in alcuni casi la pigrizia e la non elasticità individuale degli individui dei nostri tempi. Nella vita di coppia si incontrano-scontrano due identità differenti e, se non si ha la forza di sopportare insieme le varie problematiche, la via più semplice da prendere è quella della separazione.

Possibili cause di divorzio possono essere: l’incomprensione dei coniugi, la perdita della passione che sosteneva il rapporto, il tradimento, l’infelicità matrimoniale e casi di maltrattamento o di abuso, dove il divorzio per la vittima è l’unica via di fuga a tali violenze.

Il divorzio deve essere interpretato come un processo dinamico durante il quale avvengono dei cambiamenti e perdite che coinvolgono tutte le aree della vita dell’individuo. Ogni cambiamento implica il passaggio attraverso differenti fasi: «Nella prima, dominano sentimenti di disillusione, di disaffezione, di ansia, di incredulità. Nella seconda prevalgono invece i sentimenti di depressione, di distacco e di rabbia, di disperazione e di confusione. Nella terza quella successiva al divorzio, dominano sentimenti di rassegnazione, di ottimismo, di curiosità, di rimpianto e di tristezza»[135].

 

In Legami e processi di divorzio: vicissitudini generazionali[136], Vittorio Cigoli parla delle tipologie di divorzio che, in vari anni di esperienza clinica e di ricerca, ha individuato: il fallimento d’incastro; l’esaurimento del compito assegnato al legame; l’evento critico e sconcertante; la debolezza di pattuizione[137].

Il primo, il fallimento d’incastro, “si caratterizza per la contraddittorietà tra patto consapevole e patto segreto” (Cigoli, 1999, p. 141), mostra l’incapacità della coppia di costruire un legame armonico, la classica vita insieme con la condivisione di tutto: “In genere cio avviene perché ognuno cerca in tutti i modi di imporre il proprio bisogno di usare l’altro, di assimilarlo a sé. Il compagno è tale solo se viene incontro alle proprie necessità affettive” (Cigoli, 1999, p. 141). In questo caso, il legame si dissolve per egoismi personali e incapacità dei membri di trovare un punto di incontro nel vivere insieme.

L’esaurimento del compito assegnato “si caratterizza invece per il fatto che l’incastro tra patto consapevole e segreto è riuscito” (Cigoli, 1999, p.141). In questo caso il divorzio è dovuto all’esaurimento del compito che ogni coniuge si prefigge nella vita matrimoniale, il patto segreto trovato e attuato nella vita è esaurito. La coppia può essere consapevole di questo e aiutarsi nella conclusione consensuale del rapporto, non senza tristezza e dolore, ma in alcuni casi si assiste alla continuazione del legame anche quando i sentimenti buoni sono giunti alla fine.

L’evento critico è caratterizzato dall’ingresso della coppia di sposi di un terzo. Soventemente per terzo si considera il figlio, a volte percepito come un estraneo nella coppia coniugale. Ma nel rapporto a due si può parlare anche dell’intromissione di un altro elemento, l’amante, che destabilizzi il legame coniugale.

La debolezza di pattuizione concerne un tipo di legame fragile e facile alla separazione, dove “i partners vivono di emozioni, di pelle, sono quotidiani e consumistici”(Cigoli, 1999, p. 143). In queste relazioni ogni impegno, ogni decisioni e, ogni regola della vita matrimoniale rompe l’equilibrio e ci si ribella al rapporto facendo leva sulla propria indipendenza.

Terminerei questa parte relativa al divorzio con le parole di Cigoli che, nel divorzio, ritrova il tema della mancata capacità delle persone di oggi di lasciare da parte la propria identità narcisistica per dare vita a un’identità congiunta:

 

«In tal senso appaiono cruciali le tematiche della presenza-assenza di un’ideale congiunto di coppia genitoriale (il “noi generativo costruttivo”) e riconoscimento dell’altro in quanto tale altro da sé (e non in uso per sé) anche se a sé legato. Ciò vale in particolare, per il figlio»[138].

 

Si tratta del vissuto di allontanamento del sé nella realtà di coppia, dove la mediazione tra la propria individualità a favore della vita del “noi” fallisce per un egocentrismo individuale, e dove il cammino insieme si trasforma in un cammino in parallelo dove non ci s’incontra mai.

Nella famiglia se i desideri, le aspettative, soprattutto sul fronte genitoriale e su quelle delle soddisfazioni personali non vengono raccolte in un ideale congiunto, la continuità del matrimonio finirà per essere minata dalle tematiche individuali.

Quando due persone si separano, soprattutto quando sono una famiglia, si assiste alla divisione, alla scissione dei beni materiali e non. Nascono sempre più problematiche, sia di tipo economico che incidenti dellavita psichica dei componenti della famiglia.

A livello economico, ciò che prima era diviso in due adesso è a carico del singolo, la casa, le bollette, le spese alimentari e, soprattutto, il sostentamento dei figli da parte del genitore affidatario. Questo cambiamento finanziario può, influenzare l’umore e l’elaborazione emotiva che ogni individuo sviluppa all’atto della separazione. Le preoccupazioni finanziarie che deve sostenere il genitore al quale viene affidato il bambino, peggiorano lo stato emotivo  e si creano situazioni di depressioni e stati protratti nel tempo di tristezza che minano l’armonia nel nuovo equilibrio che si va cercando.

A volte queste problematiche, che non devono essere trascurate logorano quella che è la funzione genitoriale, diventando questi loro volta persone da responsabilizzare e aiutare.

  1. OLTRE IL DIVORZIO: ESSERE GENITORI SEMPRE

 

In casi di separazione, sono coinvolti non solo i diretti interessati, i coniugi, ma risultano travolti dalle decisioni i figli, le famiglie d’origine e le persone che avevano come punto di riferimento il tradizionale nucleo familiare.

Per i figli, il divorzio assume un valore differente rispetto ai genitori. I bambini, soprattutto se piccoli, non riescono a concepire la storia individuale, che esiste in ogni coppia, e che può portare a conflitti.

Alcuni genitori che falliscono la loro vita coniugale (per problemi legati alle attese e ai desideri non realizzati, alla presenza di un terzo nella coppia), decidono di porre fine al loro cammino insieme; ma per i figli le persone che divorziano sono e saranno sempre la mamma e il papà, le loro origini.

In altre situazioni, quali maltrattamenti o incessanti litigi della coppia, il divorzio è la scelta migliore anche per i figli, come in quei casi dove l’equilibrio familiare è talmente danneggiato da minacciare la stabilità del bambino, la separazione rimane l’unica strada per ristabilire l’armonia delle singole parti. In un ambiente dove i genitori continuano a litigare, il bambino, anche se molto piccolo, sente il peso delle parole, delle voci alte, e così, da una parte, considera normale questo atteggiamento aggressivo (anche in ambiente extrafamiliare), a volte adottandolo lui stesso; dall’altra, si sente coinvolto in prima persona come colpevole delle liti dei propri genitori. Ci sono casi in cui le separazioni sono utili per ristabilire nella triade quella armonia che, nella sfera congiunta, si era ormai persa. A mio parere, il divorzio è utile al nucleo familiare solo quando la decisione che sta alla base della separazione è dettata: “dal senso di responsabilità e non per delle lagnanze passionali superficiali” (Dolto F., 1991 p. 21).

Qualora invece la decisione sia presa solo per esigenze individuali, egoismo oppure per un atto impulsivo, il male prevale sul buono della separazione.

Il divorzio permette alle persone di elaborare il rapporto passato per poter migliorare la propria condizione, per imparare e far diventare questa condizione di separazione occasione di crescita: «Allora anche i processi di separazione possono assumere un significato più accettabile, o, addirittura, come evidenziato da Losso (1997), diventare “esperienze vantaggiose” per incremento di duttilità, per una scelta più esogamica del partner in seconda battuta, per un maggior intergioco familiare di fantasie edipiche. In ogni caso, mi sembra, mobilizzazione e percezione della riparabilità del tragitto di vita che in altre epoche appariva immodificabile, non per questo privo di conseguenze negative per il partner e/o per i figli (…)»[139].

 

Per gli adulti, la loro coniugalità è dettata da un legame volontario, che può essere distrutto, per il bambino questo legame, invece, è vincolante e soprattutto, non essendo stato scelto, deve restare eterno. Allo sguardo del bambino la separazione dei genitori è la rottura di qualcosa di più che di un semplice contratto, (quale è il matrimonio), la dissoluzione del legame tra moglie e marito è la distruzione dell’universo dal quale lui è nato.

 

« (…) la Dolto sa, in base alla sua decennale esperienza e alla sua competenza teorica, che la separazione mette in crisi i fondamentali punti di riferimento del bambino, la sua stessa condizione esistenziale di figlio»[140]

 

Il bambino percepisce la coppia genitoriale come unità e non come due elementi distinti; per lui la mamma e il papà sono le sue origini, distruggendo quest’unione anche la sua figura ne rimane danneggiata.

Quando si divorzia è la famiglia (madre, padre, bambino/i) ad essere interessata, ed è giusto che ogni parte “partecipi” alla (o sia coinvolta) decisione della separazione, anche solo con la parola, con una giustificazione. Il bambino, per poter elaborare uno sconvolgimento così profondo come la scissione della coppia (mamma e papà), deve da una parte essere reso partecipe della separazione e, dall’altra, potergli dare le parole adatte alla comprensione dell’avvenimento che lo può travolgere senza dargli il tempo di comprendere la situazione. «(…) i due genitori devono umanizzare la loro separazione, dirla con parole e non tenersela per sé sotto forma di angoscia non dicibile, esprimibile solo sotto forma di umori, stati depressivi o di eccitazione; il bambino sente questi stati come crepe nella sicurezza dei genitori»[141]

Bisogna comunicare con i bambini perché la comunicazione li rende partecipi nell’elaborazione dell’atto e li preserva contro il falso. «Come ci insegna Bion, “la verità è cibo per la mente”.»[142]

I genitori, prima di comunicare la decisione ai bambini, devono, però, prendere coscienza del gesto, capire i loro perché, cosicché con le parole giuste possano analizzare e definire la loro decisione. Se il genitore invece non considera la scelta ottimale per la famiglia il rischio è che il non detto possa venir interpretato come una colpa propria del bambino. “I bambini sono anche degli esseri logici” ( Dolto F.,1991, p.5). I bambini, pur di arrivare ad una logica, se non aiutati, arrivano da soli a delle conclusioni anche se gli adulti non se ne accorgono, ascoltano, analizzano, assimilino i loro comportamenti, ci fantasticano su. Queste produzioni del bambino avvengono anche al momento della separazione, o meglio nel percorso che precede la decisione e che la segue. I bambini si interrogano e pongono domande:

 

«Domande tra i 5 e i 10/12 anni:

Il papà se né andato perchè non mi vuole più bene?

(…)

Nessun altro in classe ha i genitori separati. Perché?

(…)

Papà se n’è andato… te ne andrai anche tu?

(…)

Mi sento spaventato… che mi succede?

(…)

Voglio che papà torni a casa con noi. Quando tornerà?

(…)

Le vacanze mi piacevano di più assieme…

(…)

Nella casa di papà non ci sono più i miei giochi: come faccio a giocare?

(…)»[143]

 

Con questi interrogativi sono messa in luce le paure e le angosce che un bambino prova dopo la separazione dei genitori. Sentimenti che passano dal senso di colpa (il bambino si percepisce causa della rottura) all’eccezionalità dell’evento, alla paura di essere abbandonati da entrambi, mentre ritornano ricordi nostalgici che focalizzano l’attenzione sul desiderio di una passata unità familiare. Il bambino cerca nello spazio che lo circonda, la casa, i suoi giochi, una continuità che nella coppia genitoriale momentaneamente non trova più.

Per il bambino, senza l’aiuto costante del genitore, è difficile elaborare completamente questa situazione di rottura. Da una parte potrà accettare la separazione, ma circondandola di eventi irreali, motivazioni sbagliate, che prendono il posto dello spazio lasciato vuoto da una funzione genitoriale che a volte può venire a mancare, perché la persona che sta attraversando il cammino del divorzio potrebbe totalmente concentrata su di sé.

«Non è mai troppo tardi perché i genitori stessi, magari insieme, parlino con i figli dei loro conflitti. Potrebbero sorprendentemente riceverne un grande aiuto»[144] La parola è utile per il bambino tanto quanto lo è per il genitore, dialogare con i figli serve anche alla coppia per analizzare i propri contrasti. «Saper chiedere aiuto agli altri è già un primo passo per uscire dalla prigione dell’egocentrismo» [145].

 

 

  1. CONTINUITA’ GENITORIALE

 

«Inoltre, essendo comunque quella prodotta dal divorzio una dissociazione, va tenuto presente il bisogno infantile, soprattutto prima dei sette, otto anni, di un continuum che trova la sua rappresentazione nel corpo, nell’affettività, nella casa. E’ la continuità che consente di una “base sicura”, ovvero la sensazione di poter fare affidamento sulla certezza che chi c’è chi sa prendere cura di lui. E’ in base alla interiorizzazione di tale vissuto che allora il bambino può tollerare situazioni contingenti di angoscia e di destrutturazione».[146]

 

Quando si parla di continuità, soprattutto in una famiglia, si considerano fondamentali le posizioni, i ruoli che ogni componente deve rivestire anche nelle situazioni più traumatiche della vita (quali lutti, separazioni).

I genitori devono essere in grado di garantire anche dopo la rottura, uno spazio triangolare dove collocare il bambino (soprattutto fino ai sei-sette anni), è importante che gli ex-sposi non diventino ex-genitori.

Ognuno (padre e madre) deve ricoprire il proprio ruolo genitoriale, non devono essere lasciati spazi liberi, dove il bambino possa introdursi rompendo la triangolarità edipica. I genitori devono continuare a lavorare insieme, pur nella loro divisione, come contenitore per la crescita del bambino.

Davanti alle esigenze del bambino tutte le problematiche coniugali devono essere superate per permettere al figlio di vivere questa separazione nel migliore dei modi. La maturità delle persone adulte deve limitare i danni che questa separazione comporta per il figlio, come la mancanza di fiducia nei legami, visto che quello dal quale è nato si è dissolto.

Non bisogna mai sottovalutare l’importanza, per il bambino, che l’atteggiamento di genitore ha nelle sue azioni. Oltre alla continuità educativa, che deve essere assolta dai genitori anche dopo la separazione, si deve garantire al bambino una stabilità nei rapporti e nei luoghi. La costanza della vita (come la propria casa, i giochi, gli amici), permette al bambino di agganciarsi a cose materiali per ritrovare una sorta di stabilità, mentre il rapporto con i suoi genitori si evolve e ricerca una nuova forma.

Non tutti i figli di genitori separati, sono bambini tristi, con gravi problematiche di adattamento. In alcuni casi, soprattutto in divorzi consensuali, i genitori svolgono la loro funzione in maniera ottimale, garantendo anche da separati l’armonia che il bambino richiede e formando una “base sicura” sopra la quale costruire la propria personalità, priva di timori verso i legami, verso gli altri, considerando così il fallimento dei propri genitori nella coppia coniugale non un evento generalizzabile a tutti i rapporti umani.

L’essere figlio non è una scelta, il diventare genitore implica la volontà di esserlo, che deve venire mantenuta nel tempo in situazioni positive e negative, sempre e comunque a favore dei figli.

 

 

 

 

CONCLUSIONI

 

Concludo considerando il forte valore che la famiglia ha avuto e avrà sempre nella costruzione dell’identità del singolo.

La famiglia, oggi protagonista di continue trasformazioni e con un’estensione della sua struttura e, quindi, del suo significato, può, come è noto, a condizionare le posizioni e i ruoli dei suoi membri, in primoluogo di coloro che diventeranno madre e padre, ruoli e posizioni che sono tanto importanti per lo sviluppo del figlio.

Il ruolo genitoriale, al contrario che nella famiglia funzionante come “istituzione”, però, non deve modificare – nonostante le sue importanti modificazioni - il proprio valore o disperdere le responsabilità che gli spettano.

Sotto qualsiasi prospettiva - psicologica, morale e legale -, chi genera dovrà sempre svolgere il compito di supporto di coloro che ha messo al mondo e continuare ad essere genitore per il proprio bambino.

Oggi, con l’evoluzione familiare in tutte le sue forme - famiglie di fatto, famiglie unigenitoriali e ricostruite - ciò che non deve modificarsi sono proprio, a detta degli autori che per questo lavoro ho preso in esame, i ruoli genitoriali dei protagonisti.

La mamma e il papà, quale sia la forma della loro unione, dovranno rispettare il loro bambino garantendogli una continuità genitoriale, che gli assicuri figure presenti e attivamente coinvolte dalla relazione genitore-figlio.

Quello che diventa fondamentale, oggi, è che il classico “triangolo” edipico non collassi e, perché questo avvenga, è necessario che i membri adulti della famiglia gestiscano meglio le proprie individualità, permettendo così al bambino di crescere in un luogo dove regni per lui l’equilibrio. 

L’identità dell’individuo è influenzata infatti dalle esperienze infantili, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo sessuale e, di conseguenza, anche la scelta del partner, che, come ricorda Freud (1905), ha spesso a che fare con i primi oggetti d’amore: “Il rinvenimento dell’oggetto è propriamente una riscoperta”.

L’aspetto fondamentale della coppia genitoriale, è quello di garantire al bambino posizioni stabili che lo aiutino a crescere nel migliore dei modi.

Anche in situazioni estreme, dove i coniugi prendono la scelta della divisione, in cima ai loro pensieri deve esserci sempre e comunque la figura del figlio.

Importante è considerare l’universo famiglia come promotore di identità e ristabilire le giuste posizioni nell’area fondamentale della genitorialità, che tanto servono ad ogni individuo per crescere sano e felice.

Rimangono dei problemi aperti, legate alla frammentazione della famiglia e soprattutto dei suoi protagonisti, ma, giunta alle conclusioni di questo mio lavoro, posso affermare che la disamina della letteratura sull’argomento ha mostrato due fatti sui quali non possono esserci titubanze o incertezze: la famiglia, nella sua forma, non è più quella di un tempo, mentre nella sua funzione e struttura, nulla è cambiato: se ne ha bisogno per crescere, così come, allo stesso scopo, il bambino necessita che vi siano svolte (anche oltre separazione e divorzio) le due funzioni: di madre (connessa essenzialmente a capacità di holding) e padre (legata alla spinta verso il mondo esterno).

 

 

 

 

 

 

 

IL BAMBINO IMPARA CIO’ CHE VIVE

 

Se vive nel rimprovero,

            diventerà più intransigente

Se vive nell’ostilità,

            diverrà più aggressivo

Se vive nella derisione,

            diverrà più timido

Se vive nel rifiuto,

            diverrà uno sfiduciato

Se vive nella serenità,

            diverrà più equilibrato

Se vive nell’incoraggiamento,

            diverrà più intraprendente

Se vive nell’apprezzamento,

            diverrà più comprensivo

Se vive nella lealtà,

            diverrà più giusto

Se vive nella chiarezza,

            diverrà più fiducioso

Se vive nella stima,

            diverrà più sicuro di sé

Se vive nell’amicizia,

            diverrà veramente amico

            per il suo mondo.[147]

 

 

 

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[1] Mead Margaret, 1950, Maschio e Femmina, Il Saggiatore, Verona, 1962, p. 45.

[2] Scotto di Fasano D., Mutamenti nella riproduzione umana e nell’ostetricia: una riflessione psicoanalitica, in Todros T. e Vanara F., a cura di  Nascere nel 2000, Il Mulino, Bologna, 2001, p182.

[3] Scotto di Fasano D., 2001,Mutamenti nella riproduzione umana e nell’ostetricia: una riflessione psicoanalitica, in Todros T. e Vanara F., 2001, a cura di,  Nascere nel 2000, Il Mulino, Bologna,  p. 183.

[4] Vegetti Finzi S., Il bambino della notte, Mondadori, Milano, 2001, p. 113.

[5] Freud S., 1905, Tre saggi sulla  teoria sessuale, nota1, OSF, vol IV, Bollati Boringhieri, Torino, 1970, p.525.

[6] Freud S., 1914, Il tramonto del complesso edipico, OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, p. 33.

[7] Freud S., 1922, L’Io e l’Es, OSF, vol IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, p.494.

 

[8] Freud S., 1914, Il tramonto del complesso edipico, OSF, vol X,  Bollati Boringhieri, Torino, 1978, p. 28.

[9] Vegetti Finzi S., Storia della psicoanalisi, Oscar Saggi Mondadori, Milano, 1990, p. 78.

[10] Freud S., 1931, Sessualità femminile , OSF, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1979

 pp. 67-68.

[11] Freud S., 1931, Sessualità femminile, OSF, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1979

 p. 72

[12] Klein Melanie,1950, La psicoanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze, 1984, p. 188.

[13] Scotto di Fasano D., L’impatto della separazione e del divorzio nelle differenti fasce d’età del bambino, Bellinzona, ottobre, 2001.

 

[14] Messina D. Su il bambino della notte, Ulisse, 2, 5, 1991, cit in, Scotto di Fasano D., Vuoto, troppo pieno, concavo: Lo sviluppo dell’identità femminile, in Andrologia e Sessuologia,  a cura di  Paolo Marandola,  La Goliardica Pavese, p.99. 

[15] Vegetti Finzi S., Volere un Figlio, Mondadori, Milano, 1999, p. 35.

[16] Vegetti Finzi S., Paradossi della maternità e costruzione di un’etica femminile, in Buzzatti G.e Salvo A., a cura di, Corpo a corpo, Laterza, p. 147.

[17] Scotto di Fasano D., Mutamenti nella riproduzione umana e nell’ostetricia: una riflessione psicoanalitica. Todros T. e Vanara F., a cura di Nascere nel 2000, il Mulino, Bologna,  2001, p. 196.

[18] Vegetti Finzi S., Volere un Figlio, Mondadori, Milano, 1999, p. 84.

[19] Vegetti Finzi S., Maternità e Identità FemminilePer un evento più lieto, Convegno di studi e proposte per partorire e nascere in modo più naturale, Modena, 1986.

[20] Vegetti Finzi S., Il bambino della notte, Mondadori, Milano, 2001, p. 207.

[21] Vegetti Finzi S., Il bambino della notte, Mondadori, Milano, 2001, p. 204.

[22] Vegetti Finzi S., Volere un Figlio, Mondadori, Milano, 1999, p. 27.

[23] Vegetti Finzi S., Volere un Figlio, Mondadori, Milano, 1999, p. 26.

[24] Vegetti Finzi S., Paradossi della maternità e costruzione di un’etica femminile, in Buzzatti G.e Salvo A., a cura di Corpo a corpo, Laterza, Bari, 1995, p.152.

[25] Vegetti Finzi S., Paradossi della maternità e costruzione di un’etica femminile, in Buzzatti G.e Salvo A., a cura di Corpo a corpo, Laterza, Bari,  1995, p.155.

[26] Irigaray Luce, 1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p.110.

[27] Vegetti Finzi S., Il bambino della notte, Mondadori, Milano, 2001, p.127

[28] Freud S., 1922, L’Io e L’Es, OSF, nota 3,vol. IX , Bollati Boringhieri, Torino, 1977, p.493- 494.

[29] Francesconi M., Procreazione assistita e nuove forme di genitorialità: aspetti psicodinamici ed etici delle funzioni parentali., in Todros T. e Vanara F., a cura di, Nascere nel 2000, il Mulino, Bologna, 2001, p. 309.

[30] Kipling R, 1894, Il libro della giungla, Piemme, 2001.

[31] Scotto di Fasano D., Mutamenti nella riproduzione umana e nell’ostetricia: una riflessione psicoanalitica., in Todros T. e Vanara F., a cura di, Nascere nel 2000, il Mulino, Bologna, 2001, p.193.

[32] Platone, Simposio, a cura di Reale Giovanni, Mondadori, Milano, 2001, pp. 55, 57, 59.

[33] Vegetti Finzi S., Il romanzo della famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 291.

[34] Freud S., 1929, Il disagio della civiltà,  OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, p. 559.

[35] Freud S., 1929, Il disagio della civiltà, OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, p. 559.

[36] Freud S.,1914, Introduzione al narcisismo, in OSF, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino, 1975, p. 468

[37] Vegetti Finzi S., Il romanzo della famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 292.

[38] Francesconi Marco, Scotto di Fasano Daniela, Dal guardarsi l’un l’altro al guardare assieme in un’unica direzione, Conferenza Garlasco, gennaio,  2004.

[39] Freud S. 1905, Tre saggi sulla teoria sessuali, in OSF, vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino, 1970, p. 527.

[40] Battiato F., Last summer dance, cd2, canzone 2,  Auto da Fé, Columbia Sony Music, 2003.

[41] Canetti Elias, Auto da fé, Garzanti, Milano, 1981, p. 495.

[42]Paul Verlaine Poesie, Biblioteca Universitaria Rizzoli, Milano, 2002, p. 11.

[43] Francesconi M., Scotto di Fasano D., Dal guardarsi l’un l’altro al guardare assieme  in un’unica direzione, Garlasco, gennaio, 2004.

[44] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p.71.

[45] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 5.

[46] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p 281.

[47] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 9.

[48] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p.39.

[49] Taccani Simona, Legami familiari e trasmissione psichica, in Famiglia, famiglie:trasformazione e cura, Itinerari Psicoanalitici, Atti del VI° convegno, Verona, 2002. 

[50] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 70.

[51] Sbandi M. e Spirito L., Confini e problematiche di cambiamento, a cura di Villone Betocchi Giulia, Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p.229.

[52] Francesconi M.,  Amarsi è  guardare insieme, in Famiglia oggi, Paoline, 2000, p.44.

[53] Freud S., 1914, Introduzione al narcisismo, OSF , vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino, 1975, pp. 448 e sgg.

[54] Francesconi M., “Nuove famiglie”: divagazione sull’altra scena, Costruzioni Psicoanalitiche, Franco Angeli, n.2, 2003, p.63.

[55] Aversa Enrico Valerio, Giovani adulti a confronto, a cura di Formeti Laura, La famiglia si racconta, San Paolo, Cuneo, 2002.

[56] Aversa Enrico Valerio, Giovani adulti a confronto, a cura di Formeti Laura, La famiglia si racconta, San Paolo, Cuneo, 2002, pp. 83,84, 85, 87.

 

[57] Aversa Enrico Valerio, Giovani adulti a confronto, a cura di Formeti Laura, La famiglia si racconta, San Paolo, Cuneo, 2002, p. 103.

[58] Irigaray Luce,  1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 17

 

[59] Lettera di Infantino Angela, al settimanale Grazia n° 49, dicembre, 2004.

[60] Irigaray Luce, 1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 94-96.

[61] Irigaray Luce, 1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p.95.

[62] Irigaray Luce, 1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p.96.

[63] Irigaray Luce, 1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p.101.

[64] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Mulino, Bologna, 1997, p. 14.

[65] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p.10.

[66] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p.84.

[67] Irigaray Luce, 1990, Io tu noi, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p.44.

[68] Fruggeri Laura, Famiglie, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 97.

[69] Dizionario ialiano, Garzanti, Milano, 1995.

[70] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 43.

[71] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. XIII.

[72] Francesconi M., Scotto di Fasano D., Dal guardarsi l’un l’altro al guardare assieme  in un’unica direzione, Garlasco, gennaio, 2004.

 

[73] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 104.

[74] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 107.

[75] Dati relativi  ai 12 paesi dell’unione europea.

[76] F. Crippa, La famiglia al centro delle trasformazioni demografiche, a cura di Donatella

Bramanti, Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensieri, Milano, 1999.

[77] Villone Betocchi Giulia, Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p.247.

[78] Villone Betocchi Giulia, Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p. 249.

 

[79] Villone Betocchi Giulia, Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p.250.

[80] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Mulino, Bologna, 1997, p.7.

[81] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 21.

[82] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p.34.

[83] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 37.

[84] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 93.

[85] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 107.

[86] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 46.

[87] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 50.

[88] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 51.

[89] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 69.

[90] Zanatta Anna Laura, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 70.

[91] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 275.

[92] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 277.

[93] Vegetti Finzi S., Il romanzo della Famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 276.

[94] Ciambelli Maria, La famiglia dopo il divorzio: Famiglie monogenitoriali e ambiguità dei confini, p. 46,47, a cura di Villone Batocchi G., Psicologia della famiglia, Liguori, Napoli, 1993.

[95] Ciambelli M., Gentile R., Famiglie “visibili” e famiglie “invisibili”: un’analisi dei rapporti familiari tra le reti di parentela e dinamiche relazionali, a cura di Villone Betocchi G., Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p.71.

[96] Ciambelli M., Gentile R., Famiglie “visibili” e famiglie “invisibili”: un’analisi dei rapporti familiari tra le reti di parentela e dinamiche relazionali, a cura di Villone Betocchi G., Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p. 72.

[97] Ciambelli M., Gentile R., Famiglie “visibili” e famiglie “invisibili”: un’analisi dei rapporti familiari tra le reti di parentela e dinamiche relazionali, a cura di Villone Betocchi G., Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p. 73.

[98] Fruggeri Laura, Famiglie, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 44.

[99] Ciambelli M., Gentile R., Famiglie “visibili” e famiglie “invisibili”: un’analisi dei rapporti familiari tra le reti di parentela e dinamiche relazionali, a cura di Villone Betocchi G., Psicologia della famiglia: problemi e ricerche, Liguori, Napoli, 1993, p. 69.

[100] Fruggeri Laura, Famiglie, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 71,72.

[101] Fruggeri Laura, Famiglie, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p.45

[102] Fruggeri Laura, Famiglie, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 94.

[103] Fruggeri Laura, Famiglie, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 95.

[104] Francesconi M., Scotto di Fasano D., Dal guardarsi l’un l’altro al guardare assieme  in un’unica direzione, Garlasco, gennaio, 2004.

 

[105] Francesconi M.,  Amarsi è  guardare insieme, a cura di Famiglia oggi, Paoline, 2000, p. 45.

[106] Francesconi Marco, Scotto di Fasano Daniela, Dal guardarsi l’un l’altro al guardare assieme in un’unica direzione, Garlasco, gennaio,  2004.

[107] Francesconi M.,  Amarsi è  guardare insieme, in Famiglia oggi, Paoline, 2000, p.48.

[108] Scambi Eugenia, Prefazione: il simbolico nella relazione coniugale e genitoriale, in Bramanti Donatella 1999, a cura di Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensiero, Milano.

[109] Binda Wilma, Percorsi della genitorialità materna e paterna, in Bramanti Donatella,1999, a cura di Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensiero, Milano.

 

[110] Binda Wilma, Percorsi della genitorialità materna e paterna, in Bramanti Donatella, 1999, a cura di Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensiero, Milano.

 

[111] Binda Wilma, Percorsi della genitorialità materna e paterna, in Bramanti Donatella,1999, a cura di  Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensiero, Milano.

 

[112] Meltzer D.Harris M., 1983,Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Torinese, 1986, p. 9.

[113] Meltzer D.Harris M., 1983 ,Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1986, p. 54.

[114] Meltzer D.,Harris M., 1983, Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Torinese, 1986, p. 55.

[115] Meltzer D.,Harris M., 1983, Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Torinese, 1986, p. 55.

[116] Meltzer D.,Harris M., 1983, Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Torinese, 1986, p. 57.

 

[117]Francesconi M., “Nuove famiglie”: divagazione sull’altra scena, Costruzioni Psicoanalitiche, Franco Angeli, n. 2, 2003, p. 67.

[118] Armellini M., Il pensiero di Winnicott e le forme della genitorialità contemporanea, in Bramanti Donatella, 1999, a cura di Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa Vita e pensieri, Milano, p. 134.

[119] Francesconi M., Scotto di Fasano, Papà nebbia, mamma palude: sul disagio delle genitorialità, a cura di Psiche, Essere genitori oggi: chi è il bambino?, anno II, 1997, p. 71.

[120] Rousseau Gian Giacomo, Emilio o dell’educazione, traduzione italiana Roggerone G.A., La scuola, Brescia, 1990, p.36.

[121] Vegetti Finzi S., Il romanzo della famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 170-171.

[122] Francesconi M, Scotto di Fasano, Crescere maschi, femmine oggi, Pavia, 1999.

[123] Vegetti Finzi S., Conferenza Nazionale sull’infanzia e l’adolescenza, Firenze, 19-21 novembre 1998.

[124] Francesconi M, Scotto di Fasano, Crescere maschi, femmine  oggi, Pavia, 1999.

[125] Vegetti Finzi, Prefazione, a Le parole dei bambini e l’adulto sordo, di Dolto F., 1988, Arnoldo Mondadori, 1989, p.VII.

[126] Intervista di Maria Piacente, a Vegetti Finzi S.,  In testa ai nostri pensieri, , in Pedagogika, anno II, n° 6, novembre-dicembre, 1998, p. 8-11.

[127] Vegetti Finzi, Prefazione, a Le parole dei bambini e l’adulto sordo, di Dolto F., 1988, Arnoldo Mondadori, 1989, p. IX.

[128] Vegetti Finzi S., Battistin Anna Maria,  I bambini sono cambiati, Oscar saggi Mondadori, Milano, 2003.

[129] Vegetti Finzi S., Conferenza Nazionale sull’infanzia e l’adolescenza, Firenze, 19-21 novembre 1998.

 

[130] Vegetti Finzi S., Conferenza Nazionale sull’infanzia e l’adolescenza, Firenze, 19-21 novembre 1998.

.

[131] Bramanti Donatella, Introduzione, in Bramanti Donatella, 1999, a cura di, Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensiero, Milano.

[132] Francesconi M., Scotto di Fasano, Papà nebbia, mamma palude: sul disagio delle genitorialità, a cura di Psiche, Essere genitori oggi: chi è il bambino?, anno II, 1997, p. 70.

[133] Buzzi Isabella, Quadrio Assunto, Competenze e limiti di intervento nel riadattamento alla separazione parentale, p.36., a cura di Villone Batocchi G., Psicologia della famiglia, Liguori, Napoli, 1993.

 

[134] Vegetti Finzi S., Il romanzo della famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 249.

[135] Scotto di Fasano D. 2001, Francesconi M. 2003

[136]Bramanti Donatella, a cura di, Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa, Vita e pensieri, Milano, 1999.

[137] Cigoli Vittorio, Legami e processo di divorzio: vicissitudini generazionali, p.141, in Bramanti Donatella, 1999, Coniugalità e Genratività: i legami familiari nella società complesa, Vita e pensiero, Milano.

[138] Cigoli Vittorio, Legami e processo di divorzio: vicissitudini generazionali, p.142, in Bramanti Donatella, 1999, Coniugalità e Genratività: i legami familiari nella società complesa, Vita e pensiero, Milano.

 

[139] Francesconi M., “Nuove famiglie”: divagazione sull’altra scena, Costruzioni Psicoanalitiche, Franco Angeli, n.2, 2003, p.82.

[140] Vegetti Finzi S., Introduzione, p.VIII, a Dolto Françoise, 1991, Quando i genitori si separano, Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 1995.

[141] Dolto Françoise, 1991, Quando i genitori si separano, Mondadori, Milano, 1995, p.20.

[142] Scotto di Fasano D., L’impatto della separazione e del divorzio nelle differenti fasce d’età del bambino, Bellinzona, 2001.

[143]  Scotto di Fasano D., L’impatto della separazione e del divorzio nelle differenti fasce d’età del bambino, Bellinzona, 2001.

[144] Vegetti Finzi S., Il romanzo della famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 263.

[145] Vegetti Finzi S., Il romanzo della famiglia, Mondadori, Milano, 2001, p. 263.

[146] Scotto di Fasano D., L’impatto della separazione e del divorzio nelle differenti fasce d’età del bambino, Bellinzona, 2001.

[147] Decalogo distribuito dalla Casa farmaceutica Abbott S.p.a. , in Bollea G., Le madri non sbagliano mai,  Feltrinelli, Milano, 2003.

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                  

 Tesi :COPPIE E GENITORIALITA’
NUOVI ASSETTI

di Claudia Cavoto

a cura di Maria Richichi

 

Claudia Cavoto