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Relazioni Tesi e Saggi

 

 

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PAVIA

______________

FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA

 

 

 

La Delegificazione

 

 

 

Relatore: Prof. Francesco Rigano

Correlatore: Prof. Ernesto Pettinelli

 

Tesi di Laurea di Armando Catarisano

 

Anno Accademico 2003-2004

Seduta di Laurea del 27 ottobre 2004

Aula Foscolo

 

 

 

INDICE.

 

0. INTRODUZIONE.

 

1. LA POTESTA’ REGOLAMENTARE NELLA COSTITUZIONE E PRINCIPIO DI LEGALITA’.

1.1. LA POTESTA’ REGOLAMENTARE NELLA COSTITUZIONE

1.2. LA DELEGIFICAZIONE E  IL PRINCIPIO DI LEGALITA’

 

2. LEGGE DELEGIFICABILE, LEGGE DELEGIFICANTE E NORMA DELEGIFICATORIA.

2.1. LA LEGGE DELEGIFICABILE.

2.2. LA LEGGE DELEGIFICANTE.

2.3. LA NORMA DELEGIFICATORIA.

 

3. LA DISCIPLINA DELLA DELEGIFICAZIONE SECONDO L’ART. 17 COMMA 2 L. 400/1988.

 

3.1. LO SCHEMA DI DELEGIFICAZIONE DI CUI AL       COMMA 2 DELL’ART. 17 L 400/1988.

3.2. L’APPROVAZIONE DEL REGOLAMENTO CON      DELIBERAZIONE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI.

3.3. IL PARERE DEL CONSIGLIO DI STATO.

3.4. L’ INDICAZIONE DA PARTE DELLA LEGGE DELLE NORME REGOLATRICI DELLA MATERIA.

3.5. L’ EFFETTO ABROGATIVO.

3.6.  DEROGHE E VARIABILI AGGIUNTIVE ALLE        PRESCRIZIONI DELL’ ART. 17 COMMA 2 L. N. 400 DEL        1988.

3.6.1. LE DELEGIFICAZIONI CONTENUTE IN DECRETI LEGGE ED IN DECRETI LEGISLATIVI.

3.6.2.   IL FENOMENO DEI REGOLAMENTI AVENTI NATURA MISTA:

DI DELEGIFICAZIONE E DI ATTUAZIONE-INTEGRAZIONE.

3.6.3. LE DELEGIFICAZIONI APPARENTI.

3.6.4. LE DELEGIFICAZIONI  IN FAVORE DI REGOLAMENTI MINISTERIALI.

3.6.5. I CASI DI INTERFERENZE TRA PIU’ LEGGI DI DELEGIFICAZIONE.

 

4.         L’ INTERFERENZA DELLA DELEGIFICAZIONE CON LE COMPETENZE DELLE REGIONI.

 

5.      CONCLUSIONE.

 

 

 

1.    INTRODUZIONE.

 

 

La presente tesi ha come oggetto la delegificazione, cioè la disciplina normativa che non viene più effettuata dalla legge, ma che viene degradata e svolta da un’altra fonte subordinata, secondaria o terziaria, quali regolamenti, statuti e accordi collettivi.

Si tratta di un importante fenomeno del nostro tempo, che non esprime soltanto un aspetto tecnico della produzione normativa, ma che è segno di rilevanti cambiamenti nei rapporti sociali e giuridici.

La legge, considerata come suprema lex, espressione della volontà generale, sembra avere abdicato al ruolo che ha avuto per molto tempo, ed i nuovi e diversi atti amministrativi che la sostituiscono documentano la profondità di queste modificazioni.La delegificazione è un modo di produzione delle regole giuridiche.

Etimologicamente essa esprime un diminutivo, una sottrazione (de-legificare; de-legiferare); ma l’indicazione etimologica non esprime compiutamente il concetto. Oggi il legislatore non emana soltanto delle leggi che disciplinano direttamente dei rapporti, ma emana delle leggi che regolano questi rapporti in modo indiretto, fissando dei principi, e lasciando ad altre norme la disciplina di dettaglio dei rapporti stessi.

Vi sono già stati vari aspetti normativi che, per diverse ragioni, sono stati sottratti alla legge: si pensi, ad esempio, ai regolamenti parlamentari, al regolamento della Corte Costituizionale, ecc. Ma il problema della delegificazione così come si presenta ora, e che investe tutte le fonti del diritto, è un problema dei nostri giorni.

La delegificazione è legata alla crisi di un certo sistema parlamentare; esso ha come causa contingente il numero esagerato ed incontrollabile delle leggi statali. Infatti, tra leggi, leggine, decreti legislativi, leggi di conversione di decreti legge, la conoscenza di queste fonti appare impossibile, ed anche gli stessi addetti ai lavori indicano approssimativamente il numero delle leggi statali (100.000-150.000). Ma ciò che più a determinato l’inflazione legislativa è stato il grande numero di leggi speciali, di dettaglio, emanate per risolvere problemi settoriali e, spesso contingenti. Le critiche della dottrina contro questo sistema legislativo sono state, già da molti anni, costanti e numerose. Il metodo della legislazione non ha però trovato alcun miglioramento; la cementificazione legislativa non si è arrestata, e si è ritenuto che l’unica soluzione fosse quella di sfrondare questo fogliame giuridico, e, quindi, di delegificare.  

 

Questa tesi è composta di quattro capitoli.

Nel primo capitolo si parla della potestà regolamentare nella costituzione e del rapporto tra delegificazione e principio di legalità.

Nel secondo capitolo viene analizzato l’istituto della delegificazione attraverso lo studio della legge delegificabile, della legge delegificante e della norma delegificatoria.

Nel terzo capitolo si espone la disciplina della delegificazione come prevista dall’art. 17 comma 2 della legge n. 400 del 1988.

Nel quarto si tratta dell’ interferenza della delegificazione con le competenze delle ragioni.

Il lavoro si conclude con delle opinioni personali sull’argomento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. LA POTESTA’ REGOLAMENTARE NELLA COSTITUZIONE E PRINCIPIO DI LEGALITA’.

 

 

1.1. LA POTESTA’ REGOLAMENTARE NELLA COSTITUZIONE

 

Alla previsione esaustiva nella Costituzione del livello primario delle fonti si contrappone una disciplina generica della potestà regolamentare del Governo.

Infatti l’art. 117, comma 6 Cost. afferma che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. La collocazione della disposizione potrebbe indurre a considerarla come volta esclusivamente a distribuire il potere regolamentare tra i soggetti che, ai sensi del nuovo art. 114 Cost., compongono la Repubblica: i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato. E questa finalità è effettivamente conseguita dalla disposizioni in questione: anche per la potestà regolamentare, analogamente a quel che accade per la potestà legislativa in virtù dei primi quattro commi dell’ art. 117 Cost., la competenza di carattere residuale – generale è attribuita alle Regioni, così completandosi quel processo di espansione della normativa regolamentare in ambito regionale, avviato dalla legge costituzionale n.1 del 1999. Le eccezioni a questa competenza residuale – generale spettante ai regolamenti regionali sono costituite, da un lato, dalle materie rientranti nella competenza esclusiva statale, che sono le sole nelle quali è possibile esercitare la potestà regolamentare del Governo, sempre che questa non venga delegata alle Regioni; e, dall’altro, dalla disciplina dell’organizzazione e delle funzioni di Comuni, Province e Città metropolitane, direttamente attribuita alla potestà regolamentare di cui ciascun ente territoriale appartenente ad una di queste categorie viene ad essere dotato.

Tuttavia, al di là dell’intento con cui tale disposizione è stata inserita nel testo dell’ art. 117 Cost., sembra piuttosto evidente che essa finisca, indirettamente, per conseguire un ulteriore effetto, che consiste nel fornire un esplicito riconoscimento costituzionale alla potestà regolamentare del Governo, oltre che a quella delle Regioni e delle altre Autonomie locali.

L’art. 87 Cost., invece, si limita a fissare il potere del Presidente della Repubblica di emanazione dei regolamenti, costruendolo in analogia con quello di promulgazione delle leggi, mentre nulla viene accennato né nella parte dedicata alla formazione degli atti primari, né nella parte specificamente dedicata al Governo.

Anzi, le due norme più direttamente rivolte alla connotazione delle strutture governative e alla conformazione della pubblica amministrazione affermano il principio del necessario prioritario intervento legislativo.

In tal senso l’art. 95 richiede la legge per l’organizzazione dei ministeri e per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’art. 97 secondo il quale è necessaria una preventiva norma di legge per l’organizzazione degli uffici.

Sul profilo procedimentale e sulla sfera di intervento, nel silenzio della Carta sul rapporto fra legge e regolamento, la conclusione possibile è che il Costituente ha presupposto il fenomeno regolamentare: ciò si sostiene partendo dalla constatazione che vi è un’espressa previsione del potere presidenziale di emanazione del regolamento non diversa dalla promulgazione. Infatti se il Presidente della Repubblica promulga le leggi ed emana i regolamenti non si può non ritenere sussistente una potestà regolamentare del Governo che deve ricevere una disciplina da parte di un atto-fonte di rango subordinato alla Costituzione e quindi a livello di legge ordinaria.

Sempre con riferimento al disegno costituzionale, si sono potuti trarre elementi dalla forma di governo caratterizzante il nostro sistema, perché nelle forme di governo monistiche i poteri normativi sono riservati alle assemblee che possono affidarle ad altri organi legati alle assemblee da un rapporto di responsabilità politica.

Ne deriva che nel nostro sistema costituzionale monistico si ipotizza che il Governo sia titolare di poteri di normazione secondaria in virtù dell’investitura che ha ricevuto dal Parlamento.

I poteri normativi, dunque, sussistono ma sono caratterizzati da questo rapporto di emanazione.

Quanto detto vale a dar conto della sussistenza del potere ma non può generare conseguenze in ordine alla sua connotazione.

Esclusa una riserva di regolamento non essendovi alcun ambito di disciplina riservato all’atto secondario da parte della Costituzione, la conseguenza è che non vi sono limiti alla estensione della disciplina con legge che, essendo fonte sovraordinata, può concedere margini di intervento al regolamento e poi sottrarre quegli stessi spazi dettando una disciplina diversa o sostitutiva.

Elemento ricostruttivo di assoluto rilievo è costituito dalle regole costituzionali in tema di delegazione legislativa che fissano un rapporto preciso fra la legge di delega e il decreto legislativo. Il limite temporale e di materia che la legge di delega deve prevedere non consente di nutrire dubbi su un meccanismo di produzione normativa ben congegnato. Il problema della giustificazione del regolamento delegato nel sistema risulta ribaltato perché si tratta di giustificare un fenomeno non coerente con le regole costituzionali in tema di delegazione legislativa.

Il problema più rilevante appare proprio quello di evitare che il regolamento delegato possa proporsi come una specie di decreto legislativo potenziato in quanto svincolato dal limite del tempo giacchè, pur dotato della forza attiva di legge in quanto autorizzato ad innovare nel preesistente ordine legislativo, è dal punto di vista passivo un regolamento e quindi sempre nella disponibilità del Governo.

Una volta che la Costituzione rigida ha disciplinato la delegazione legislativa con limiti ben precisi, l’intervento del regolamento in attuazione di una delega può costituire un problema in quanto si è al di fuori delle prescrizioni costituzionali in tema di delega. 

 

 

 1.2. LA DELEGIFICAZIONE E IL PRINCIPIO DI LEGALITA’

 

L’analisi della conformazione della delegificazione può essere condotta seguendo tre filoni di pensiero.

La prima posizione è rappresentata dalla dottrina che ricerca un fondamento istituzionale della potestà regolamentare del Governo e pertanto non concepisce un rapporto di promanazione  conformativa fra legge e normazione secondaria. La tesi del fondamento istituzionale del potere normativo del Governo si fonda come nucleo concettuale forte sulla posizione di autonomia costituzionale del Governo.

Questo vale per la tesi che, configurando una riserva di amministrazione come riserva di indirizzo ex artt. 95 e 97 Cost., evidenzia la insostenibilità, in un sistema ordinamentale pluralista  basato sulla pari posizione degli organi costituzionali, di una generale presunzione di competenza del Parlamento e sulla conseguente impossibilità per tale organo di assorbire l’area delle competenze governative in tema di direzione politica e politico-amministrativa.   

Ciò vale anche per la ricostruzione che evidenzia la centralità, preminenza e originarietà dell’Esecutivo o ragiona in termini di necessario superamento del monopolio legislativo del Parlamento, in favore di un principio di autonomia normativa valido per gli enti territoriali e per il Governo.

Più sfumata appare la tesi che giustifica la potestà normativa del Governo considerando che, ormai superata la rigida divisione dei poteri, il rapporto di fiducia che lega Parlamento e Governo consente di ravvisare in capo a quest’ultimo una derivazione democratica e quindi un carattere rappresentativo che ben può fondare un potere normativo secondario. 

Con riferimento a quanto qui si ricorda sulle tesi volte ad individuare  un fondamento istituzionale del potere normativo del Governo, merita particolare attenzione la sua più recente riproposizione. Questa  è ottenuta considerando l’evoluzione dell’ordinamento sul presupposto che la Carta costituzionale consolidi il monismo con la  sovranità popolare ma con un impianto pluralista e decentrato e con l’impatto forte di una carta rigida che condiziona la stessa legge.

Per tale motivo, essendo la Costituzione il fondamento ed il condizionamento di ogni potere, non vi è possibilità per la legge di proporsi come base e limite del potere regolamentare. E questo, oltre che per la posizione costituzionale del Governo ex art. 95 Cost., per la circostanza che lo stesso Governo è dotato di potestà normativa primaria secondo riconoscimento costituzionale.

Alla luce di questa impostazione è evidente che la dottrina in esame contesta in toto la nozione di legalità sostanziale, dal momento che i richiami per quest’ultima effettuati agli artt. 97, 101 e 113 della Cost. sarebbero riduttivi nei confronti della Costituzione come diretto parametro di riferimento, dalla quale si desume invece l’esistenza di una pluralità di riserve di legge che stanno proprio a segnalare che, laddove il Costituente ha voluto, ha espressamente previsto la sottoposizione dell’intera azione amministrativa alla precedente prescrizione di rango legislativo.      

La tesi che tende a sganciare il potere normativo del Governo dalla previa norma di legge incontra critiche che la rendono meno efficace al punto da renderla non condivisibile.

Il sostegno argomentativo a questa affermazione appare duplice: da un lato le disposizioni della Carta a cui la tesi si riferisce consentono una lettura del tutto diversa; dall’altro, il riferimento al complessivo assetto dell’ordinamento, anch’esso permette conclusioni completamente differenti.

Per quanto riguarda il primo supporto argomentativo, cioè quello che si fonda sull’autonomia dell’organo Governo, la conclusione che si intende conseguire non è dimostrata.

Infatti dall’art. 87 non si può trarre nulla di più rispetto all’affermazione che ci si trovi  di fronte ad un potere presupposto. Certamente il Governo è l’organo costituzionale cui il potere presupposto si riferisce, ma senza l’intervento del legislatore che lo conformi la previsione costituzionale non ha la possibilità di svolgere un ruolo effettivo.

Per quel che riguarda l’art. 95 non è affatto provato che la posizione di autonomia che dallo stesso si ricava sia idonea a fondare anche l’attività normativa esterna dell’organo: tanto più che dagli artt. 95 e 97 discende un principio del tutto opposto per quel che riguarda il profilo delle regole strettamente organizzative richiedendosi l’intervento prioritario della legge.

Soprattutto non appare per nulla dimostrato che l’esigenza pluralista, certamente distintiva del nostro assetto istituzionale sia in grado di coinvolgere nel senso indicato il rapporto Parlamento-Governo.

Sotto questo profilo si possono trarre spunti ricostruttivi del tutto diversi fondati sulla necessità che l’apparato amministrativo sia controllato dal Parlamento che è certamente detentore privilegiato delle funzioni legislative, come è indicato dagli artt. 76 e 77 Cost. in maniera non equivoca. Quindi non sembra che si possa porre sullo stesso piano l’esigenza pluralista con quella di riconoscere  una posizione di autonomia del Governo. Che si tratti di due istanze omogenee lo dimostra proprio l’argomentazione sulla quale la tesi si fonda; infatti se è vero che dagli artt. 76 e 77 Cost. si trae un fondamento costituzionale del potere normativo primario del Governo, è anche vero che lo stesso è costruito soltanto come eccezionale e limitato. Ne discende che il riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., invece che muoversi nella direzione indicata nella tesi qui in esame, può avere soltanto la più limitata funzione di presupporre la capacità del Governo di produrre atti normativi, ma si tratta di una capacità astratta che necessita di una previsione esplicita che ne fissi le possibilità del concreto operato.   

Diversamente da questa tesi si esprimono gli Autori che colgono nel principio di legalità la necessità di trovare sempre nella legge il fondamento del potere amministrativo. E questo avviene nella diversa prospettazione della legalità formale o sostanziale. La prima espressione sta ad indicare che non può sussistere potere amministrativo che non sia fondato sulla legge. La seconda vuole che la legge sia non soltanto fondamento ma proceda anche alla individuazione dei principi della materia, in questo modo configurando uno schema di disciplina che condiziona il regolamento nel suo contenuto precettivo.

Tra gli Autori che si riferiscono ad un principio di legalità sostanziale va segnalata la posizione di chi ha notato che quando si è prospettata una normazione regolamentare scissa da qualunque autorizzazione legislativa, lo si è fatto fondandosi sulla sua inerenza alla funzione amministrativa. Da qui, una volta che il nuovo ordinamento costituzionale ha introdotto una riserva di legge in tale specifico settore, si evidenzia l’opzione per un criterio opposto desumibile anche dal complesso delle previsioni costituzionali che lasciano intendere una generale presunzione normativa del Parlamento.

Ne discende la necessità di autorizzazione per la normazione regolamentare che non può essere accordata se non con la fissazione di criteri idonei a conformare il contenuto. A questa conclusione si perviene con l’iniziale considerazione che, se l’art. 76 Cost. ha fissato limiti assolutamente rigorosi per l’approvazione di atti aventi forza di legge imputati al Governo, non è pensabile che limiti analoghi non valgano per le fonti subordinate non essendo tanto rilevante il livello di operatività della fonte, primario o secondario, quanto il grado di cogenza nei confronti dei destinatari. Con particolare riferimento ai regolamenti delegati il limite ad essi inevitabilmente connesso sta nell’immodificabilità delle leggi esistenti e nel divieto di intervenire nelle materie riservate. Il punto fondamentale sul quale viene posta l’attenzione è che il regolamento può introdurre una disciplina senza essere ancorato a specifici criteri guida, in questo modo superando quel limite costituzionale che l’art. 76 propone come di carattere generale, seppure specificamente riferito alla delegazione legislativa. Ne consegue l’illegittimità della legge che l’intervento consente.

Tale considerazione impone di ammettere soltanto quei regolamenti che sono collegati a particolari circostanze già indicate dalla legge. In questa ipotesi la modificazione delle leggi anteriori deriva dalla stessa legge che i regolamenti prevede giacchè la disciplina introdotta da questi ultimi è ancorata ad elementi specifici al cui variare si connette la eliminazione della normativa primaria preesistente. In tale circostanza l’incidenza regolamentare è soltanto apparente  perché è la legge a fissare il momento ed il modo della variazione rispetto al precedente. Per questo motivo il fenomeno della normazione secondaria deve ritenersi chiuso nella categoria dei regolamenti esecutivi ed autorizzati che sono idonei a darne una rappresentazione conforme alle previsioni costituzionali.

Questa tesi si propone come uno dei modi certamente significativi per affermare l’esistenza nel nostro sistema di un principio di legalità in senso sostanziale e cioè non come mera subordinazione dell’amministrazione alla legge. Presenta, però, una incertezza ricostruttiva nel momento in cui non bene precisa il ruolo che assume l’art. 76 nel costruire il principio di legalità sostanziale. Infatti se tale norma ne è il fondamento, non è difficile contestarne l’insufficienza perché non risulta chiarito come si possa trasporne l’applicabilità alla normativa secondaria, essendo espressamente riferita soltanto alla produzione di atti aventi forza di legge.

Alla tesi appena considerata si affianca concettualmente un’altra, pure rivolta a dimostrare analoga esigenza sulla base però di una costruzione diversa che inserisce il rapporto fra legge e regolamento in uno schema che consente la raffrontabilità del secondo alla prima. La regola costituzionale cui ci si riferisce è quella contenuta nell’art. 113 secondo cui non è consentita l’esistenza di posizioni non tutelabili e condizione per la effettività della tutela è che vi sia la possibilità di confrontare l’atto amministrativo con la regola legislativa che deve funzionare da parametro valutativo. Ecco che emerge il ruolo fondamentale del concetto di raffrontabilità dell’atto alla legge perché si possa avere il controllo e quindi la tutela delle posizioni soggettive. Da qui deriva l’assoluta insufficienza della mera attribuzione legislativa che fondi il potere, e la necessità di un contenuto conformativo dell’atto primario.

Con attenzione ai regolamenti delegati, distinte le due ipotesi dei regolamenti idonei a modificare una legge o ad intervenire in materia riservata, si evidenzia come, per quest’ultimo punto, la Costituzione impedisca qualunque interferenza delle norme secondarie in materia oggetto di riserva assoluta. Invece proprio in quelle oggetto di riserva relativa deve esserci un rapporto fra legge e regolamento che imponga alla prima di tracciare i punti fondamentali della disciplina che poi il regolamento deve rispettare ed applicare.

Restano, invece, tutte le perplessità per il primo aspetto e cioè per la possibilità che queste fonti possano derogare a precedenti legge ordinarie. Tali regolamenti si potrebbero giustificare soltanto nella misure in cui siano ben determinate dalla legge le disposizioni che devono essere derogate e sia disciplinata la materia in modo da consentire la raffrontabilità.

Questa tesi, nel fare riferimento all’art. 113, incorre nella critica di voler desumere da tale disposizione più di quanto sia possibile in base alla sua struttura normativa e di trascurare altre regole costituzionali che hanno un rilievo equivalente se non superiore. Ma ha il merito di aver proposto un metodo di lettura complessivo che appare corretto ed idoneo a cogliere le esigenze del sistema, cioè quello di ritenere alcune disposizioni espressive di una realtà ordinamentale che certamente va riconosciuta alla nostra organizzazione statuale ed impone un certo rapporto fra legge ed amministrazione.

Questa ricostruzione è stata riproposta con riferimento specifico alla disciplina del potere regolamentare contenuta nella legge n. 400 del 1988. Si ribadisce quanto si è già sostenuto rafforzando la conclusione attraverso il riferimento ad un intervento della Corte Costituzionale. Infatti alla stregua della sentenza 150/82 ormai le controversie in materia dovrebbero essere superate perché essa afferma che il principio di legalità non va inteso in senso formale e quindi la legge non può limitarsi alla attribuzione di un potere al Governo o alla pubblica amministrazione, ma deve disciplinare il contenuto per dirigerne le scelte; da ciò deriva che un’attribuzione generica non è sufficiente perché il vincolo alle scelte governative deve essere posto specificatamente in apposita considerazione della materia. La sentenza conclude affermando che il principio di legalità sostanziale ha valore costituzionale.

La posizione espressa dal giudice costituzionale viene richiamata per fondare l’ulteriore passaggio della vincolatività del principio di legalità nei confronti non solo degli atti amministrativi ma anche dei regolamenti. Questi infatti, da un lato, in quanto atti normativi condizionano l’amministrazione, dall’altro devono trovare una previa norma legislativa che sia termine di raffronto per garantire il rispetto dell’art. 113 Cost.

Critico verso un principio di legalità sostanziale nelle versioni appena descritte è chi ha invece concluso nel senso dell’ammissibilità di un principio di legalità formale. Questi sostiene che gli argomenti posti a fondamento delle precedenti ricostruzioni non appaiono convincenti.

Nei confronti della tesi che propone il principio in termini di raffrontabilità, ex art. 113 Cost., si è notato che essa in realtà non riesce a fornire niente di diverso rispetto a quanto discende dalla normale subordinazione del potere amministrativo alla regola legislativa e quindi il principio di raffrontabilità non esprimerebbe altro che il concetto di potere amministrativo discrezionale e non libero.

Nei confronti della tesi che ha fondato la legalità sull’art. 76 in tema di delega legislativa si nota che non è chiarito il motivo per il quale si debba ritenere che siano da rispettare soltanto alcuni dei principi fissati dalla prescrizione costituzionale e non tutti. Se così si operasse si arriverebbe alla conseguenza che il potere normativo è solo temporaneo.

In conclusione si può affermare che la tesi della legalità sostanziale non riesce ancora ad individuare un fondamento costituzionale che sia sufficientemente stringente da sottrarre ogni dubbio. Però è condivisibile il sostegno di tipo ideologico perché dal complessivo disegno della Carta repubblicana si trae una impostazione che tende a saldare l’istanza democratica con quella garantista e che si esprime privilegiando il ruolo della legge come fonte primaria immediatamente subordinata alla Costituzione. Questa impostazione di fondo per potersi tradurre in regole rigorosamente condizionanti l’esercizio di un potere deve trovare però un riscontro normativo di livello costituzionale assolutamente indubitabile in quanto solo così può proporsi come schema condizionante la normazione secondaria. Ed è proprio questo passaggio che non appare sufficientemente chiarito.

Neanche la decisione della Corte Costituzionale ha espresso significati decisivi sulle modalità di esplicazione del principio, infatti non ha chiarito il passaggio assolutamente rilevante del rapporto tra legalità sostanziale e normazione regolamentare.

Le valutazioni critiche sopra esposte sono nella direzione di dovere necessariamente ancorare la vigenza e l’operatività di un principio di legalità nel nostro sistema alla regola espressa in Costituzione. Sotto questo punto di vista una soluzione che appare precisa nel metodo e nelle conclusioni è quella che ha cercato una risposta al quesito del fondamento costituzionale del principio di legalità e che vuole portare al superamento della distinzione fra legalità formale e stanziale.

Tale fondamento è individuato nell’art. 101 Cost. laddove fissa la regola che il giudice è soggetto soltanto alla legge. La condizione della giustiziabilità è riferita allora a quanto la legge stabilisce direttamente o a quanto la stessa impone che sia rispettato. Si coglie, così, il fulcro della garanzia del sistema perché è evidente che gli atti amministrativi o normativi potranno essere considerati nella sede giudiziale soltanto in quanto conformi alla prescrizione della legge formale. In tale ricostruzione si assiste ad una dilatazione del principio di legalità formale che appare idonea a ricomprendere anche le istanze che sono alla base della legalità sostanziale. Infatti la conformità formale non può essere soddisfatta da qualsiasi forma di autorizzazione anche generica e globale, ma pretende invece una specifica attribuzione di potere che indichi almeno il fine al quale il potere stesso dovrà rivolgersi e la delimitazione della materia sulla quale il potere dovrà esplicarsi. La dottrina in esame, svolte queste considerazioni, ammette la possibilità di effettuare un collegamento tra l’art. 101 Cost. con gli artt. 95 c.3, 97 c.1 e 2 e con l’art. 128. Queste prescrizioni costituzionali indicano che le competenze degli apparati amministrativi devono essere delimitate dalla legge la quale deve provvedere a fissare il tipo e la natura delle attribuzioni, così che non è possibile ritenere soddisfatto il principio stesso con una generica autorizzazione legislativa, ma è necessaria una specifica attribuzione da parte della legge che individui la natura del potere che viene assegnato e la materia sulla quale il potere stesso potrà essere esercitato.

Questo passaggio argomentativo che si fonda sull’opportunità del collegamento tra differenti prescrizioni della Carta costituzionale esprime quell’importante esigenza di non isolare i precetti costituzionali, ma di considerarli in intima connesione per desumere il significato di un principio che è ispiratore del sistema.

Un’altra annotazione interessante è che la dottrina in esame proprio dall’art. 101 trae conferma dell’affermazione secondo la quale la legge non può istituire fonti concorrenziali che siano dotate della sua stessa forza e ritiene inammissibile che la legge preveda di essere derogata, abrogata o sospesa da atti o fatti diversi dalla legge stessa. Ne consegue che dal principio di legalità deriva quello della preferenza della legge e della superiorità degli atti legislativi rispetto a tutti quelli da essi diversi.

Per terminare il discorso le conclusioni alle quali si può pervenire sono che dalla Carta Costituzionale risultano contraddette le indicazioni poste alla base della delegificazione. Il meccanismo della delegificazione  non può essere accolto così come era stata inizialmente pensato, ed il sistema complessivo delineato dalla Costituzione non può non offrire resistenze e problematiche nel recepire meccanismi in altri contesti maturati e che vengono meccanicamente trasferiti nel nuovo ordinamento.

La prova più chiara ed immediata di siffatte problematiche si coglie tenendo conto delle analisi sui regolamenti delegati per connotare atti così storicamente datati. Con riferimento a tale fenomeno si è manifestata la difficoltà di inquadramento in una realtà profondamente diversa da quella in cui la figura era sorta.

La posizione più coerente con il dato fattuale è stata quella di chi ha evidenziato che in questa ipotesi non regge lo schema gerarchico della sottoposizione del regolamento alla legge, motivo per il quale è necessario riconoscere al primo il carattere della forza di legge. Conclusione criticabile per le conseguenza che determina nel rapporto fra le fonti e quindi per le alterazioni sistematiche conseguenti.

Contrapposta a questa tesi è la dottrina che nega siffatto intervento normativo facendo riferimento al principio di legalità dal quale si trae quello della preferenza della legge.

La posizione intermedia poggia l’accento sulla assenza di forza di legge in questa categoria di atti. Ma è solo un espediente artificioso cui si ricorre per giustificare il fenomeno.

Insomma al di là dei tipi di soluzione giustificativa, va posta in evidenza la estrema difficoltà di recepire atti che, maturati in un determinato contesto organizzativo, non più si conciliano con i nuovi assetti ed hanno continuato a trovare applicazione anche nella impossibilità di una condivisibile coerenza con il diverso contesto

ordinamentale.

2. LEGGE DELEGIFICABILE, LEGGE DELEGIFICANTE E NORMA DELEGIFICATORIA.

 

Il meccanismo della delegificazione è di certo unitario, ma esso si esprime in molteplici e diversi aspetti che possono variare di volta in volta, attraverso i vari tipi di norme delegificatorie.

Quindi, se si scompone il meccanismo giuridico della delegificazione ci si trova di fronte a tre tipi di atti, che devono essere singolarmente esaminati:

 

A) la legge delegificabile;

B) la legge delegificante, cioè la legge che opera la delegificazione;

C)  la norma delegificatoria, che sostituisce la legge delegificabile.

 

 

2.1. LA LEGGE DELEGIFICABILE.

 

Consideriamo innanzitutto la legge che è suscettibile di delegificazione, e cioè la legge delegificabile.

Si tratta di sapere se tutte le leggi possano o no essere delegificate.

I quesiti che devono essere considerati riguardano le caratteristiche delle leggi delegificabili, e quindi, se vi siano delle leggi non delegificabili, e comunque, se la delegificazione incontra dei limiti.

Si può affermare in primo luogo che la delegificazione appare condizionata dalla gerarchia delle fonti, nel senso che una norma di grado inferiore, non può delegificare una norma di grado gerarchico superiore. È perciò necessaria l’equiordinazione, per cui una legge statale può essere delegificata ad opera di un’altra legge statale. Né, in contrario, si potrebbe rilevare che il principio di legalità impedirebbe la delegificazione. Infatti, il principio di legalità non esprime altro che la preferenza della legge sugli atti dell’amministrazione e, di per sé, quindi, non costituisce un limite alla delegificazione. Peraltro, questo aspetto deve essere ora precisato proprio in riferimento al nuovo sistema delle fonti, per cui, ad esempio, una legge di principio non può essere delegificata, o derogata, se non da un’ altra legge di principio.

Quindi la legge può essere delegificata da una legge delegificante che sia o di livello superiore, o equiparata all’atto delegificato.

Deriva da ciò che quando un atto di livello superiore (es. Costituzione) stabilisce che una certa materia deve essere compiutamente riservata alla legge ordinaria, la legge ordinaria non può superare questa riserva di legge, e procedere alla delegificazione.

La delegificazione potrà avvenire in casi di riserva relativa, dove la materia viene disciplinata, per una parte, dalla legge, che rimane o diventa legge di principio; e, per altra parte, da una normazione secondaria.

La legge delegificabile è poi determinata dai limiti che sono stabiliti sempre da una norma di grado superiore in relazione ad una particolare competenza normativa ( es. legislazione regionale esclusiva, potestà statutaria comunale e provinciale; potestà statutaria comunale e provinciale). In tali casi vi è una riserva, o legislativa o statutaria, che non può essere delegificata, se non con la modifica della norma di grado superiore che tale riserva aveva previsto.

Quindi, a parte i limiti della gerarchia delle fonti e della riserva di legge assoluta, tutte le leggi appaiono delegificabili.

Una legge può poi essere delegificata in tutto il suo complesso, o anche solo per una parte; e può trattarsi di una legge vigente, come di una legge futura. La legge delegificante può infatti stabilire che certe materie o settori di materie saranno, dopo un certo periodo di tempo, disciplinate con regolamento, o con altra fonte secondaria.

Ci si deve poi domandare se una legge delegificata possa produrre ancora degli effetti, e di qual genere.

Come si è visto, la delegificazione non consiste in un’abrogazione, o in una deroga, e la cessazione degli effetti della legge delegificata dipende da quanto viene stabilito dalla legge delegificante.

Vi possono essere delle parti della legge, che non sono delegificate. Per esse non sorge problema, perché l’efficacia rimane immutata.

Vi sono invece altre parti che sono delegificate ad opera della legge delegificante. Quest’ultima può prevedere che con l’entrata in vigore della legge delegificante, o a partire da una certa data, le fattispecie che prima erano disciplinate dalla legge delegificata, siano disciplinate da regolamento o da altra fonte secondaria. Oppure, può stabilire che ciò avverrà quando entreranno in vigore queste norme secondarie. A seconda dei vari casi, quindi, la legge delegificata cesserà di avere efficacia, e per lo più si tratterà di una cessazione graduale di efficacia.

La legge delegificata, peraltro, mantiene la sua efficacia per i rapporti conclusi che erano sorti sulla base di essa, o che da essa erano stati regolati.

Un altro punto che è meritevole di attenzione è costituito dall’interrogativo sui criteri di interpretazione delle norme delegificate.

Nelle ipotesi di delegificazione parziale, le parti o le norme della legge che sono sopravvissute alla delegificazione vengono interpretate secondo i normali criteri di interpretazione della legge, secondo l’art.12 preleggi del codice civile.

La legge, o le norme che sono state delegificate, non hanno più efficacia di legge, ed esse possono eventualmente costituire un punto di riferimento per l’interpretazione delle norme delegificatorie.

 

  

2.2. LA LEGGE DELEGIFICANTE.

 

Consideriamo ora la legge delegificante, cioè la legge che delegifica.

Deve trattarsi di un atto normativo collocato allo stesso livello gerarchico della legge delegificata, o al livello superiore.

Non potrebbe, una legge, attribuire la forza delegificante ad un regolamento delegato, né potrebbe ipotizzarsi un regolamento di attuazione con forza delegificante.

La legge delegificante è espressione, esplicita ed esclusiva, del potere legislativo.

Essa, inoltre è una legge speciale, rivolta alla disciplina giuridica di una o più fattispecie speciali.

La legge delegificante, cioè, stabilisce che determinate fattispecie, già disciplinate da una legge, saranno regolate attraverso fonti secondarie.

La legge delegificante, quindi, stabilisce la fonte secondaria che disciplinerà determinate fattispecie, e determina, o indica, l’autorità o il soggetto competente ad emanare tali regole.

Inoltre essa deve contenere anche una “pars costruens”, cioè l’indicazione dei principi e dei criteri cui la norma o le norme delegificatorie devono conformarsi, o nel cui ambito potranno muoversi.

La legge delegificante ha, quindi, come contenuto necessario, i principi che dovranno essere seguiti dalla norma o dalle norme deligificatorie.

L’efficacia della legge delegificante presenta un aspetto negativo ed uno positivo.

L’aspetto negativo è quello caratteristico della forza delegificante. Questa forza opera, solo ed esclusivamente, sulla legge delegificabile, che viene per così dire, degradata e, senza essere abrogata cessa di essere efficace. La legge delegificante, ha come aspetto negativo, la forza di togliere vigore di legge alla legge delegificabile.

L’aspetto positivo consiste nel fatto che essa esplicitamente consente, autorizza, legittima, altri soggetti od autorità, a disciplinare, con norme secondarie, quelle fattispecie che erano prima disciplinate dalla legge delegificabile, ed ora delegificata.     

Un’ altra questione da affrontare è vedere se la legge delegificante possa essere retroattiva.

La legge delegificante non può essere retroattiva.

Essa può riferirsi ad una legge già esistente, che delegifica, ma non può dare efficacia retroattiva alla disciplina che sarà stabilita con le norme secondarie delegificatorie.

Ciò non a causa di eventuali collegamenti con norme penali, e quindi, di contrasto con l’ art. 25 comma 2 della Costituzione, ma perché tale legge delegificante non può consentire che una fonte secondaria abbia una efficacia sostitutiva, rispetto ad una fonte primaria, anche per tempi precedenti alla emanazione della legge delegificante stessa.

La legge delegificante, quindi, vale per il futuro, nel senso che essa può autorizzare, per il futuro, e sulla base di principi da essa stabiliti, fonti secondarie a disciplinare materie e fattispecie che erano prima disciplinate dalla legge delegificabile.

Per quanto riguarda l’interpretazione, la legge delegificante deve essere interpretata innanzitutto secondo i criteri di cui all’art.12 delle preleggi del codice civile.

In particolare l’interpretazione estensiva appare particolarmente collegata con la legge delegificante. In fatti, poiché lo scopo è quello di delegificare, la legge delegificante deve essere interpretata secondo un criterio di interpretazione estensiva, e, se non vi sono esplicite disposizioni contrarie, la delegificazione deve realizzarsi nel modo più ampio possibile.

 

 

2.3. LA NORMA DELEGIFICATORIA.

 

Consideriamo ora l’atto, o meglio, la norma che è il risultato della delegificazione.

La norma delegificatoria è una norma secondaria, che può essere di tipo regolamentare, o statutario, o un atto a contenuto generale, amministrativo o anche contrattuale (accordo collettivo).

Nelle ipotesi in cui, ad una legge di carattere uniforme, si deve dare spazio ad esigenze di autonomia , allora interviene, al posto della legge delegificata, lo statuto autonomo. Si pensi, ad esempio, rispetto alla disciplina uniforme stabilita dalle precedenti leggi comunali e provinciali del 1915 e del 1934, agli statuti autonomi dei comuni e delle province, di cui all’ art. 4 della l. 142/1990. In questo caso, la legge delegificata era costituita dai testi unici delle delle leggi comunali e provinciali del 1915 e 1934. Attualmente la legge delegificante, cioè la l. 142/1990, ha stabilito nell’ art. 4 alcuni principi che questi statuti dovranno rispettare, e, per il resto, ha lasciato la disciplina normativa allo statuto. Non si tratta di uno spazio molto ampio, ma è indubbio che in questo caso la norma statutaria si presenta come norma speciale, che non può essere contrastata da altre fonti, se non equiparate alla legge di principio delegificante, e non può quindi essere superata o contrastata  da norme regionali, concorrenti o esclusive. La norma delegificatoria, in questi casi, presenta perciò delle caratteristiche derogatorie, e quindi, di specialità.

Analoghe considerazioni si possono svolgere se la norma delegificatoria è costituita da norme regolamentari. In questi casi, non si tratta di regolamenti di esecuzione; infatti la legge delegificata cessa di avere efficacia, e la legge delegificante stabilisce soltanto i principi, ai quali non si può dare una mera esecuzione.

L’aspetto nuovo delle norme delegificatorie è documentato anche dall’esame della attuale potestà regolamentare dei comuni e delle province, che si presenta, dopo la delegificazione operata dalla l. 142/1990, come una fonte che ha ritrovato una nuova e quasi sorprendente vitalità, e che può disciplinare, in modo speciale, le varie situazioni speciali che si possono riscontrare in ogni Comune ed in ogni Provincia.

Infatti, in questo caso non ci si trova di fronte alla sostituzione di una legge con un regolamento, ma alla sostituzione, da parte dei vari regolamenti locali, della disciplina che, in varie parti, era contenuta nei testi unici del 1915 e del 1934, e nel regolamento governativo di esecuzione del 1911. Oltre a ciò, questi regolamenti si presentano anch’essi come espressione di esigenze speciali, e sono, per questo aspetto, norme speciali.

Delegificatorie possono poi essere le norme contenute in un atto amministrativo generale o in un accordo collettivo di impiego.

Ciò conferma i vari e molteplici aspetti della delegificazione e delle norme delegificatorie.

 

Il contenuto della norma delegificatoria è un contenuto innovativo, e non meramente ripetitivo, o esecutivo, della legge delegificata.

Questo contenuto è dipendente dai principi stabiliti nella legge delegificante, e , nell’ambito consentito da questi principi, le norme delegificatorie possono contenere, per le varie fattispecie, la disciplina che si ritiene più opportuna, tenendosi anche conto che tali disposizioni non possono contrastare con altri principi che riguardano materie identiche o simili. La norma delegificatoria, come norma speciale, è quindi una norma derogatoria rispetto a quanto è previsto da altre leggi, non di principio, e che disciplinano, anch’esse, materie o fattispecie simili a quella da essa regolata.

Il contenuto della norma delegificatoria attiene sia ad aspetti dell’organizzazione, sia ad aspetti della attività amministrativa. Ma anche se dall’art. 97 Cost., si ha, attraverso la riserva relativa, una prima indicazione di delegificazione rispetto alla organizzazione dei pubblici uffici, il settore dove le norme delegificatorie possono trovare maggiore spazio, è quello delle varie attività della amministrazione pubblica. Queste attività richiedono, sempre di più, una disciplina normativa, e non appare più possibile che ciò avvenga con leggi, neppure mediante il sistema di produzione legislativa della delegazione. Il contenuto delle norme delegificatorie conferma che nell’attuale sistema normativo il sistema della competenza, e perciò della specialità, appare in espansione rispetto al tradizionale criterio della gerarchia.

Le norme delegificatorie sostituiscono il contenuto della legge delegificata, ma non si collocano al livello di questa. Sono norme secondarie, che non hanno forza di legge, ma la forza e l’efficacia delle norme secondarie.

Ma il problema dell’efficacia delle norme delegificatorie deve essere approfondito.

Ci si deve infatti chiedere se, tra un regolamento che disciplina ex novo una certa materia, ed un regolamento che sostituisce, quale norma delegificatoria, una legge delegificata, non vi sia qualche differenza; se, nel secondo caso, non ci si trovi di fronte, proprio per questo aspetto, come ad un riflesso della legge la cui efficacia è cessata e, quindi, a qualcosa di diverso, rinforzato, rispetto alla prima ipotesi.

Una differenza tra questi due regolamenti esiste.

Essa non dipende dalla legge delegificata, che non ha più alcun riverbero, ma dipende dalla legge delegificante, che contiene dei principi. La norma delegificatoria si pone quindi in una posizione diversa da quella delle altre norme secondarie, proprio perché essa è norma secondaria, che però dipende, o che comunque si muove, nell’ambito di principi stabiliti da una legge. Vi è quindi qualcosa di più, di rinforzato, rispetto alle altre norme secondarie.

La conferma della tesi espressa è data dall’esame della modificazione della norma secondaria delegificatoria. Infatti, tale modificazione non può avvenire liberamente, rispetto al contenuto, ma dovrà tenere conto dei principi che sono stabiliti nella legge delegificante, che dalla norma delegificatoria costituisce il supporto fondamentale.

Dopo l’efficacia, si può soffermare l’attenzione sull’interpretazione delle norme delegificatorie.

Questa interpretazione non segue, tassativamente, il solo criterio della gerarchia, o soltanto quello della competenza. In altri termini, non si potrebbe sostenere che, se la norma delegificatoria è norma regolamentare, essa deve essere interpretata secondo i criteri di interpretazione dei regolamenti. Oppure che, se la norma delgificatoria è norma statutaria, essa deve essere interpretata secondo i criteri di interpretazione dello statuto.

Si tratta, invece di una interpretazione che è caratterizzata dal fatto di essere una interpretazione sistematica . I normali criteri dell’interpretazione letterale e logica, trovano qui uno spazio usuale; meno rilevante appare in questo caso l’intenzione del soggetto o dell’autorità che emana queste norme secondarie.

È invece determinante l’interpretazione sistematica, che deve avvenire nell’ambito di questo sistema.

In altri termini, si deve tenere conto in modo particolare del rapporto tra legge delegificante e norma delegificatoria. La norma delegificatoria dipende dalla legge delegificante, e deve quindi essere interpretata alla luce di questa. Soltanto nell’ipotesi che rimanga in vita qualche parte della legge delegificata, l’interpretazione sistematica potrà essere condotta anche alla luce della legge delegificata stessa.

Consideriamo, ad esempio, la l. 241/1990. tale legge prevede, agli artt. 24 e 26, il rinvio a regolamenti governativi che dovranno stabilire le ipotesi del diritto di acceso ai documenti, e le modalità di tale accesso. Sorge anche qui il problema delle modalità di interpretazione di questi regolamenti.

Ora, questi regolamenti non possono essere interpretati soltanto in base ai criteri di interpretazione dei regolamenti. Infatti, essi dipendono dalla l. 241/1990, ma non come regolamenti di esecuzione. Tali regolamenti sono di attuazione di leggi di principio, e si pongono su un piano diverso. Quindi, questi regolamenti devono essere interpretati sistematicamente, alla luce di principio della l. 241/1990, che è, nello stesso tempo, una legge delegificante.

Ad analoghe considerazioni si deve pervenire in riferimento allo statuto, come norma delegificatoria.

Il meccanismo, in questo caso, è quello dell’art.4 della legge 142/1990, e da ciò consegue che lo statuto deve essere interpretato alla luce dei principi fissati dalla legge.

La norma delegificatoria deve quindi essere interpretata alla luce della legge delegificante, che è legge di principio.

Da quanto esposto, e dagli esempi che sono stati addotti, derivano due conseguenze di rilievo.

La prima, che l’applicazione analogica delle norme delegificatorie può avvenire soltanto se questa operazione interpretativa è compatibile con i principi previsti nelle leggi delegificanti. L’ intenzione del legislatore appare qui evidenziata, o evidenziabile, soltanto nelle norme contenute nella legge delegificante.

La seconda, che, sempre in riferimento alle norme delegificatorie, il ricorso ai principi generali dell’ordinamento deve essere effettuato solo dopo che si è fatto riferimento ai principi contenuti nella legge delegificata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. LA DISCIPLINA DELLA DELEGIFICAZIONE SECONDO L’ART. 17 COMMA 2 L. 400/1988.

 

 

3.1 LO SCHEMA DI DELEGIFICAZIONE DI CUI AL COMMA 2 DELL’ART. 17 L 400/1988.

 

La prima legge sulla razionalizzazione delle fonti secondarie è stata la l. n. 100 del 1926. Questa legge ha previsto due tipi di regolamento, quello di esecuzione e quello di organizzazione, per disciplinare: l’esecuzione delle leggi; l’uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo; l’organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni dello Stato, l’ordinamento del personale ad esso addetto, l’ordinamento degli Enti ed Istituti pubblici eccettuati i Comuni, le Province, le Istituzioni pubbliche di beneficenza, le Università e gli Istituti di istruzione superiore che hanno personalità giuridica, quand’anche si tratti di materie sino ad oggi regolate per legge .

I regolamenti delegati non sono ricompresi nella legge 100/1926.

Tale assenza in un testo legislativo che intendeva fornire una disciplina organica dei poteri normativi attribuiti al Governo è senza dubbio da notare.

Ad una analisi approfondita , l’espressione cui ricorre il legislatore per i regolamenti di organizzazione è in realtà idonea ad evidenziare un processo di delegificazione. Come si può desumere da questa  formula legislativa i regolamenti avevano la possibilità di innovare a precedenti prescrizioni anche di rango legislativo. Appare notevole, quindi, che la legge faccia applicazione del meccanismo tipico della delegazione quanto agli effetti,ma non riconosce, come detto, la figura dei regolamenti delegati. Ed allora la circostanza che essi fossero menzionati nella Relazione alla legge 100/1926 come sottospecie di regolamenti esecutivi esprime il limitato interesse che esisteva ad individuare una categoria generali che poteva avere un significato relativo, potendo il legislatore di volta in volta conseguire l’obiettivo autorizzando come voleva la fonte subordinata ad assumere determinati contenuti e spiegare specifici effetti.

Sia dottrina che giurisprudenza convengono sull’ affermazione che l’art.17 della legge 400/1988 abbia rappresentato una svolta decisiva nel difficile processo di razionalizzazione dell’assetto delle fonti secondarie, attraverso la tipizzazione dell’esercizio del potere regolamentare del Governo e dei singoli Ministri mediante procedimenti che mirano a tutelare esigenze di legalità, trasparenza, nel rispetto dei confini tra aria normativa primaria e secondaria.

Nella specie dei regolamenti governativi la legge procede alla identificazione di differenti tipi: i regolamenti di esecuzione ( art. 17 c. 1, lett. a ), i regolamenti di attuazione e integrazione ( art. 17 c.1, lett. b ), i regolamenti esecutivi e i regolamenti indipendenti ( art. 17 c. 1, lett. c ), i regolamenti di organizzazione ( art. 17 c.1, lett. d ).

In aggiunta ai regolamenti governativi tipizzati nel comma 1, la legge 400/1988 prevede, nel comma 2 dell’art. 17, un’ulteriore ipotesi di regolamento posto all’interno di una disciplina recante una significativa innovazione perché con essa viene operata una sistemazione generale del processo di delegificazione.

Tale regola  cerca di dare risposta ai problemi circa i rapporti tra legge e regolamento quando quest’ultimo deve intervenire nella materia sostituendosi alla precedente previsione legislativa; circa il modo in cui la sostituzione della disciplina da regolamenti rispetto a quella da legge può determinarsi; e indicando i settori nei quali la delegificazione è ammissibile.

Questi passaggi problematici sono dunque affrontati dalla l. 400/1988 che offre un quadro generale di sistemazione dei rapporti tra la fonte primaria e secondaria, innovando in maniera notevole rispetto al precedente dal momento che tutte le ipotesi di delegificazione del nostro ordinamento si erano sviluppate in assenza di una disciplina-quadro.

Il contenuto essenziale della nuova normativa legislativa può essere sintetizzato nei seguenti punti:

 

A) la legge, che dà origine ad un processo di delegificazione, deve     fissare le norme generali regolatrici della materia che il regolamento è chiamato a svolgere;

B)  la stessa legge deve autorizzare l’intervento del potere regolamentare del Governo e disporre l’abrogazione della disciplina in precedenza regolata con fonti primarie;

C)  l’intervento della delegificazione può essere realizzato nelle materie non riservate o coperte soltanto da riserva relativa;

D)  l’effetto abrogativo, derivante dalla disposizione della legge di delegificazione, non opera immediatamente, ma nel momento in cui entra in vigore la normazione secondaria.

 

È da notare la definizione dei rapporti tra legge e regolamento, perché l’aver affidato alla legge la fissazione dei principi generali della materia costituisce un elemento indispensabile per valutare la risposta offerta alla esigenza di una delegificazione compatibile con il principio di legalità.

Sempre sul rapporto legge-regolamento, la soluzione è stata ritenuta costituzionalmente corretta perché idonea a salvaguardare il ruolo delle Assemblee parlamentari alle quali è consentito di decidere sulle questioni essenziali e di stabilire i confini dell’intervento governativo che non è libero ma discrezionale.

Quello che va sottolineato, però, è che la legge 400/1998 opera solo una scelta di metodo procedimentale e consente di prefigurare un meccanismo di carattere generale da utilizzare  per conseguire il risultato della delegificazione. È evidente, quindi, che la individuazione dei settori nei quali procedere alla delegificazione deve ottenersi in momenti successivi.

Se il meccanismo è idoneo a conseguire l’obiettivo di rispettare i ruoli del Parlamento e del Governo, diverso è il giudizio sulla efficacia della prescrizione normativa.

Il punto sul quale le difficoltà non sono superate è costituito dalla possibilità che quanto previsto trovi in concreto effettiva applicazione.

Infatti la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 17 quale regola espressa da legge ordinaria appare inidonea a configurarsi come parametro su cui effettuare il giudizio di legittimità costituzionale.

Questa conclusione si fonda sulla considerazione che la legge 400/1988 non sembra neanche connotarsi in maniera immediata come legge attuativa di specifica previsione costituzionale che consentirebbe di svolgere riflessioni su una possibile qualità legislativa diversa dalle altre fonti.

Ed è su tale punto che si manifesta la difficoltà ricostruttiva di quella dottrina che, mostrando piena adesione alla soluzione proposta dal legislatore, conclude che le leggi successive nel tempo devono adeguarsi al modello delineato.

E’, infatti, impossibile sanzionare una normazione legislativa di deroga di una disciplina generale delle fonti, se quest’ultima non è contenuta in leggi costituzionali.

Né sembra allo stesso fine producente l’ulteriore passaggio argomentativo secondo il quale se le leggi che operano la delegificazione omettessero o ponessero in modo insufficiente le norme generali regolatrici della materia violerebbero il principio di legalità. Da questa conclusione discende che limitata è la portata della prescrizione contenuta nella legge 400/1988 perché essa non fa altro che riprodurre quanto è già implicito nel nostro sistema e cioè che il rapporto legge-regolamento deve in ogni caso lasciare alla prima la determinazione dei principi della materia.

Ed infatti la mancata precisazione dei termini in cui vanno intese le norme generali imposte alla legge di settore dalla legge n. 400 e la necessità di ricorrere al principio di legalità convincono che, per questo aspetto, quest’ultima assume un valore limitato se non addirittura marginale.

Quindi si può concludere che la legge 400/1988 non esaurisce la disciplina della delegificazione, ma è momento assai significativo di scelta di un metodo cui vanno ispirati i rapporti fra fonti in un’ottica delegificante.

In sintesi: il metodo e l’ottica sono in astratto condivisibili ma si manifestano perplessità sulla efficacia in termini di concreta operatività del sistema.

 

 

3.2. L’APPROVAZIONE DEL REGOLAMENTO CON DELIBERAZIONE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI.

 

I punti fondamentali sui quali soffermare l’attenzione attengono soprattutto: al tipo di atto deliberativo richiesto per approvare il regolamento in attuazione della legge di delegificazione; alla valenza del parere del Consiglio di stato; infine al raccordo legge-regolamento con la previa determinazione da parte della prima dei principi generali e con la indicazione delle norme da abrogare.

Con riferimento al primo dei punti indicati, l’atto deliberativo deve necessariamente essere del Consiglio dei Ministri dovendosi con ciò escludere che sia idonea una manifestazione di volontà imputabile al singolo Ministro o al Presidente del Consiglio dei Ministri.

L’esigenza sottesa alla approvazione con delibera consiliare è quella di trasferire sul piano formale la responsabilità governativa che è di tipo collegiale e non può non essere assunta ed espressa con delibere del Consiglio dei Ministri.

Sul punto non sarebbero dovute esistere perplessità tenuto conto delle particolarità dei regolamenti approvati in base al processo di delegificazione e del loro raccordarsi con la disciplina generale contenuta nell’art. 17 comma 1. Invece, i dubbi in sede di applicazione hanno avuto modo di manifestarsi e va detto che è stato il Consiglio di Stato a richiamare la necessità che l’approvazione fosse appunto effettuata con delibera consiliare, precisando che fosse allo scopo sufficiente una determinazione imputata al singolo Ministro. Conclusione a cui arriva l’organo consultivo ponendo l’accento proprio sulla responsabilità politica collegata alla disciplina normativa da introdurre che non può non comportare il coinvolgimento dell’intero Governo.

Queste esigenze vengono soddisfatte con la delibera consiliare e, quindi, va condivisa la conclusione del Consiglio di Stato; perplessità possono sorgere invece in ordine alla inderogabilità o meno della iniziativa da parte del Ministro. Il punto va segnalato dal momento che il Consiglio di Stato, con il parere della III sezione dell’ 8 febbraio 1994 n. 95/94 sul testo di regolamento in tema di procedimenti per il riconoscimento delle persone giuridiche private, ha precisato di non condividere la scelta di fare esercitare l’iniziativa di proporre il testo di regolamento Consiglio dei Ministri da parte del Presidente del Consiglio piuttosto che dai singoli Ministri. Al riguardo vi sarebbe, secondo il Consiglio di Stato, una infungibilità del potere ministeriale che non potrebbe essere sostituito da un’ iniziativa del Presidente del Consiglio, perché ciò determinerebbe anche una violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione  garantito dall’art 97della Costituzione.

Questo tipo di conclusione, che pure il Consiglio di Stato propone con un certo rigore, non appare uno di quegli elementi indispensabili a qualificare il processo di delegificazione. Per certi profili, anzi, la posizione del Ministro, contrapposta a quella del Presidente del Consiglio, potrebbe apparire anche non in linea con i rapporti endogovernativi e con il ruolo che è chiamato a svolgere il Presidente del Consiglio in particolare nell’ottica dell’indispensabile ruolo di coordinamento che ad esso è affidato.

Questa caratterizzazione connessa ai rapporti interni del Consiglio dei Ministri trova anche una sua rilevanza concreta nel momento in cui si tratta di elaborare una pluralità di testi riferiti ad una complessiva opera di sistemazione di materie collegate e che possono far ritenere opportuno un centro unitario da cui far provenire il testo dei regolamenti da sottoporre al Consiglio dei Ministri.

 

 

3.3. IL PARERE DEL CONSIGLIO DI STATO.

 

Un secondo punto sul quale soffermare l’attenzione attiene al ruolo svolto dal parere del Consiglio di Stato ed al rapporto, anche cronologico, fra questo e gli altri pareri eventualmente richiesti ad ulteriori organi e, in particolare, alle Commissioni Parlamentari.

Anche questa questione è stata considerata dal Consiglio di Stato,in particolare, quando si è trovato a pronunciare contemporaneamente alle Commissioni Parlamentari: come ad esempio nel parere del 17 marzo 1994 in sede di esame dello schema di regolamento concernente la semplificazione del procedimento di riconoscimento delle persone giuridiche.

In questa occasione è stato evidenziato che probabilmente l’invio contemporaneo della richiesta di parere sia alle Commissioni Parlamentari che al Consiglio di Stato può determinare una maggiore speditezza del procedimento, ma genera altri problemi di carattere più generale con conseguenti dubbi sulla opportunità di siffatta soluzione tenuto conto delle ragioni per le quali viene richiesto il parere alle une e all’altro.

Per tale motivo il Consiglio di Stato richiama l’attenzione sulla circostanza che esso si esprime sulla legittimità generale dell’atto e deve, per questo, pronunciarsi da ultimo, prima della deliberazione finale del testo da parte del Consiglio dei Ministri.

Ne deriva che eventuali modificazioni del regolamento, apportate in ossequio alle osservazioni delle Commissioni Parlamentari, non possono non comportare una nuova sottoposizione del testo all’organo di legittimità, con ciò contraddicendo l’esigenza di celerità posta alla base dell’assegnazione contemporanea alle Commissioni Parlamentari e all’organo di giustizia amministrativa.

La posizione espressa dal Consiglio di Stato consente qualche notazione.

Il parere tecnico effettivamente si pone come ultimo momento della sequenza procedimentale proprio perché con tale parere vengono garantite le ragioni fondative dell’interpello di un organo consultivo tecnicamente caratterizzato. Ad una più meditata valutazione non sfugge, però, che il parere è svolto non soltanto sulla legittimità, ma anche sul merito.

Con questa connotazione si pone il problema del rapporto tra i pareri espressi da organi diversi, perché è possibile una contrapposizione tra quanto espresso nell’una e nell’altra sede.

La successione nel tempo dell’un parere rispetto agli altri non vi è dubbio che tenda a conferire a quello che segue un ruolo preminente. Ma il problema è in realtà di tipo più generale, dovendosi verificare se vi è un modo per evitare contrapposizioni fra organi politici e organi tecnici e questo soprattutto perché la legge 400/88, nel disciplinare il processo di delegificazione, non si è preoccupata di considerare tali elementi.

 

 

 

 

3.4. L’ INDICAZIONE DA PARTE DELLA LEGGE DELLE NORME REGOLATRICI DELLA MATERIA.

 

Uno dei punti qualificanti la disciplina contenuta nella legge 400/88 va colto nell’aver configurato il rapporto tra la legge e il regolamento in maniera da consentire il controllo del regolamento stesso ad opera della fonte primaria.

Per raggiungere questo fine sono stati individuati due momenti: l’autorizzazione da parte della legge all’esercizio della potestà regolamentare e la predeterminazione legislativa delle norme generali regolatrici della materia idonee a prefigurare il campo dell’intervento regolamentare.

Nell’ esperienza attuativa il limite delle norme generali si è mostrato piuttosto evanescente e nella prassi vi è stata una peculiare utilizzazione di siffatta prescrizione legislativa.

Sul punto non sembra che l’organo consultivo abbia affermato in modo rigoroso la necessità del puntuale rispetto di tale requisito pur fissato dalla legge 400/88.

Al contrario il Consiglio di Stato, ad esempio nel parere espresso sul regolamento di cui al d.P.R. 10 aprile 1990, n. 101 relativo alla pratica forense per l’ammissione all’esame di procuratore legale, ha considerato ammissibile un procedimento di delegificazione nel quale la legge non aveva previsto le norme generali della materia. La conclusione è fondata sull’osservazione che ciò non costituisce una anomalia insuperabile quando vi può essere una delimitazione ad opera di una legge che, non inserita nel meccanismo di delegificazione, sia ancora idonea a preservare i tratti e gli effetti essenziali degli istituti da disciplinare.

In pratica, il Consiglio di Stato non sembra riferirsi ad una generalizzata possibilità di assenza delle norme disciplinatrici di rango legislativo, ma, con la giustificazione di una prassi non conforme al modello al modello definito con la legge 400/88  e con la ricerca di un limite indiretto, di fatto consente l’esplicazione di un potere con una meno efficace delimitazione degli ambiti di intervento della normativa regolamentare.

Quindi, il limite delle norme generali non risulta rispettato così che esso non sembra aver svolto quel ruolo importante nel rapporto legge-regolamento al quale si è fatto più volte riferimento.

Vanno segnalate situazioni differenziate: ipotesi in cui le norme generali non sono per nulla fissate; ovvero rispetto più formale che effettivo con la trasfigurazione dei limiti in obiettivi della normativa e, quindi, mere finalità piuttosto che regole di carattere generale.

È da notare come questa peculiare utilizzazione del limite dei principi si ha anche per ipotesi di delegificazione in settori di  rilievo.

Ne costituisce uno degli esempi più significativi la legge n. 537 del 1993 che ha inteso avviare una generale e complessiva opera di sistemazione dei procedimenti amministrativi.

Questa legge prevede il ricorso ad una pluralità di regolamenti di delegificazione, i più importanti dei quali attengono ai profili organizzativi conseguenti all’adozione dei decreti legislativi di riordino dell’amministrazione centrale dello Stato; alle funzioni dei Comitati interministeriali soppressi; all’organizzazione e alle funzioni del CIPE, del Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza e del Comitato dei Ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo; al riordino di organi collegiali dello Stato, nonché di organismi con funzioni pubbliche o di collaborazione ad uffici pubblici;  alla disciplina dei 123 procedimenti amministrativi indicati nell’allegato alla legge.

Alcune delle delegificazioni in esame sono caratterizzate dalla carenza, o comunque dalla generacità delle norme generali regolatrici della materia: così, ad esempio, le delegificazioni in materia di definizione delle funzioni dei Comitati interministeriali soppressi e di riordino della relativa disciplina sono caratterizzate, nelle relative norme di autorizzazione, dall’indeterminatezza dei principi e criteri direttivi.

La norma di delegificazione che appare più significativa nel contesto della legge 537/1993 è costituita dall’ art. 2 che autorizza l’adozione di regolamenti ex art. 17 comma 2 L. n. 400/88 per riordinare la disciplina dei 123 procedimenti amministrativi in allegato alla legge.

Anche tale vasta delegificazione presenta sostanziali deviazioni rispetto all’ art. 17 comma 2 legge 400/88 che la espongono a dubbi di legittimità costituzionale.

Preliminarmente, occorre notare che anche la disciplina del procedimento amministrativo può dirsi compresa nell’ambito di applicazione dell’ art. 97 comma 1 Cost. ove si consideri la connessione naturale esistente tra la disciplina del procedimento e la materia dell’organizzazione; inoltre, anche configurando il procedimento come attinente all’attività amministrativa, non sembra comunque venire meno la necessità di leggi generali che fondino e predeterminino l’azione amministrativa.

Per di più, ormai il procedimento amministrativo appare in molti casi uno strumento di garanzia dei diritti fondamentali; non a caso, la disciplina dei procedimenti, delegificata ex art. 2 l. 537/93, è in alcuni casi strettamente inerente alla tutela di interessi sostanziali di rango anche costituzionale.

È allora essenziale valutare la sufficienza delle norme generali regolatrici della materia per valutare il rispetto del principio di legalità.

Sotto questo profilo, è ben vero che nella disciplina del procedimento amministrativo trovano applicazione principi generali che la giurisprudenza amministrativa ritiene applicabili anche nel silenzio della legge; tuttavia tali principi non sembrano in grado di surrogare la carenza delle norme generali regolatrici della materia, non solo perché essi sono riferibili al procedimento amministrativo tout court o ad intere categorie di procedimenti, ma anche perché, su un piano più generale, il richiamo sistematico ai principi generali finisce con l’ indebolire il valore del principio di legalità che dovrebbe comportare una selezione più rigorosa di tali principi.

Ora, anche nella delegificazione in esame le norme generali regolatrici della materia risultano assai generiche e sembrano configurarsi come obiettivi da raggiungere e finalità da perseguire più che come norme sostanziali idonee a limitare la discrezionalità dei regolamenti. Così, il nono comma individua tra i principi e criteri, ad esempio, la semplificazione dei procedimenti amministrativi, in modo da ridurre il numero delle fasi procedimentali, delle amministrazioni intervenienti e degli atti di concerto e di intesa.

La genericità delle norme generali regolatrici della materia ha rimesso in ultima analisi al Governo, ma anche al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti, la determinazione dei limiti in concreto che la delegificazione è destinata ad incontrare.

Soprattutto il Consiglio di Stato ha svolto una funzione essenziale nella individuazione delle norme generali regolatrici della materia: in più occasioni, esso ha affermato che la semplificazione del procedimento amministrativo non può comportare la modificazione delle competenze sostanziali né dei presupposti e dei requisiti preordinati alla emanazione dei provvedimenti amministrativi cui i procedimenti si riferiscono, né estendersi alla disciplina sostanziale degli istituti ai quali i procedimenti si riferiscono; e tale orientamento è stato condiviso anche dalla Corte dei Conti.

Peraltro, tali criteri non sono stati sempre coerentemente seguiti dato che, con l’acquiescenza del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, i regolamenti di delegificazione hanno provveduto a spostare la competenza in ordine all’adozione di alcuni atti da una amministrazione ad un’ altra, nonostante che lo stesso Consiglio di Stato avesse in altri casi ritenuto che ciò non costituisse una mera modificazione procedimentale, ma fosse destinato ad incidere sulla sostanza dell’atto amministrativo. Ciò sottrae l’atto ad un centro di imputazione di determinati interessi pubblici per attribuirlo ad altro centro di imputazione di diversi interessi pubblici.

Quanto appena detto è, dunque, significativo nel segnalare una non irrilevante alterazione del rapporto fra legge e regolamento e per di più in un settore ad alta valenza politico-istituzionale, dal momento che si tratta, come più volte accennato, di un ampio processo riformatore coinvolgente una molteplicità di procedimenti nei quali vengono in rilievo situazioni soggettive anche costituzionalmente garantite che non possono essere sottratte in maniera quasi completa alla norma primaria.

Il fenomeno è ancora più rilevante se si considera che il procedimento di delegificazione in siffatta materia è continuato con le previsioni di un successivo decreto-legge, del 12 maggio 1995 n. 163, che ha ulteriormente allargato il campo di intervento dell’atto regolamentare ad altri procedimenti, con ulteriore coinvolgimento di posizioni soggettive.La prassi di sostituire le norme generali con meri obiettivi, indicati come criteri e principi, si conferma in molte leggi.

Tra le quali vanno ricordate la legge n.109 del 1994, legge quadro sui lavori pubblici; la legge n. 549 del 1995 che autorizza il Governo a dettare disposizioni in materia di adempimenti contabili  e di versamenti di imposta; ma in particolare è da ricordare la legge n. 59 del 1997 che prevede la semplificazione amministrativa di oltre cento categorie di procedimenti amministrativi. 

 

 

3.5. L’ EFFETTO ABROGATIVO.

L’ allontanamento dalle regole fissate dalla legge 400/88 trova ulteriore conferma nella non puntuale disciplina dell’abrogazione.

La soluzione prescelta dal legislatore è nel senso di connettere l’effetto abrogativo alla legge, che autorizza il regolamento ad intervenire nella materia legificata e dispone l’abrogazione, essendo il regolamento null’altro che il fatto al sopraggiungere del quale si realizza la condizione per l’abrogazione stessa.

La prassi dimostra che questo schema fissato dal legislatore non viene in genere rispettato dalle leggi di delegificazione.

Esse normalmente si limitano a riprodurre una formula generale riferendo l’abrogazione a tutte le norme legislative preesistenti incompatibili e tale formula generale viene poi ripresa di frequente dagli stessi regolamenti.

La legge 537/1993 ne è un esempio perfetto, infatti il comma 8 dell’art. 2 contiene una clausola alquanto generica che testualmente afferma che le norme, anche di legge, regolatrici dei procedimenti indicati al comma 7 sono abrogate con effetto dalla data di entrata in vigore dei regolamenti di cui al medesimo comma 7. Quanto appena affermato è in contrasto, quindi, con le previsioni dell’art. 17 comma 2 l. 400/88 e, ancor prima, con lo stesso principio di legalità, poiché proprio l’ individuazione delle norme abrogate vale ad individuare l’estensione della delegificazione, che non può essere certo lasciata alle determinazioni del regolamento, tranne nel caso in cui le norme generali regolatrici della materia siano così puntuali da non lasciare alcuna discrezionalità al Governo.

Viceversa, molti dei regolamenti adottati in attuazione dell’ art. 2 comma 7 l. 537/93 contengono una esplicita disposizione che reca l’indicazione delle disposizioni legislative previgenti abrogate in conseguenza dell’entrata in vigore dei regolamenti stessi.

Sul punto, il Consiglio di Stato non solo ha ritenuto legittime tali disposizioni, ma negli schemi di regolamento dove esse non erano state previste affatto, o previste in modo generico, ne ha richiesto esplicitamente l’inserzione, affermando che l’abrogazione delle previdenti disposizioni legislative a seguito della delegificazione non può essere lasciata all’ interprete, e spetta dunque al regolamento indicare compiutamente quali siano le norme di legge sostituite o abrogate.

Questa, ripetiamo, non è l’indicazione che proviene dalla L. 400/88 e vi è il pericolo che in questo modo si finisca per affidare al regolamento un margine di intervento non consentito con l’individuazione delle norme di legge da abrogare facendo rientrare nella piena disponibilità di un atto secondario la norma primaria.

La conclusione del Consiglio di Stato è fonte, dunque, di perplessità sotto diversi punti di vista.

In primo luogo non appare coerente del tutto con il rapporto di gerarchia tra le fonti consentire al regolamento una funzione abrogativa della legge.

Per di più, in questo modo, piuttosto che ottenere semplificazione e chiarezza, si finisce per introdurre un elemento di confusione dal momento che si manifesta l’ulteriore problema di verificare se il regolamento ha correttamente individuato le norme di legge sottoposte all’effetto abrogativo.

Inoltre, l’eventuale abrogazione, ad opera del regolamento, della preesistente normativa legislativa quando un tale effetto non discende dalla legge di delegificazione, si potrebbe proporre come vizio dell’atto normativo secondario, ma è evidente la possibile confusione per l’interprete che si trova in ogni caso di fronte ad una abrogazione esplicita, seppur in maniera non legittima. Non vi è dubbio, infatti, che il sistema tiene soltanto nel momento in cui dalla successione legge di delegificazione – leggi preesistenti regolatrici della materia sia possibile trarre tutti gli elementi per definire il quadro delle regole vigenti e di quelle abrogate: quadro che non dovrà essere inciso dal regolamento governativo. Proprio per questo motivo è indispensabile una delimitazione ad opera dell’atto legislativo. D’altro canto, va pure detto, non si comprende il motivo per il quale non possa essere l’interprete a verificare l’abrogazione tacitamente realizzata.

In maniera paradossale è da ritenere che la soluzione suggerita dal

Consiglio di Stato avverte un’esigenza del sistema, ma finisce per 

dare una risposta non in linea con quanto il sistema medesimo

pretenderebbe.

Si vuole in altri termini dire che è auspicabile che non si abbia una

abrogazione tacita rimessa al discrezionale intervento dell’interprete, ma ciò è per evitare che si possa consentire in via interpretativa un margine di operatività del regolamento delegificato più ampio rispetto all’autorizzazione legislativa.

In sostanza, non essendovi nell’ipotesi di specie il rapporto disposizione legislativa puntuale che succede ad altra precedente ma un fatto abrogativo, quale è appunto il regolamento delegificato, va evitato che quest’ultimo si muova in un terreno più ampio rispetto all’autorizzazione legislativa e che vi sia una ampia disponibilità al riguardo dell’interprete.

Se questa è l’esigenza la risposta non può essere quella di affidare proprio al regolamento la esplicazione dei confini dell’abrogazione, bensì quella di richiedere che l’atto legislativo sia assolutamente conforme alle regole fissate nella L. 400/88 nel definire il modello, per non attribuire al regolamento margini di intervento diversi e superiori rispetto a quelli derivanti dal rapporto tipico con la legge e creare le premesse per alterazioni maggiori dello schema che pretende invece sul punto un rigoroso rispetto per preservare il rapporto fra livello legislativo e livello ad esso subordinato.                                                                  

Anche in questo caso la prassi segnala uno sviluppo nella direzione  indicata, del rapporto fra legislazione preesistente, che viene abrogata, e regolamento in sede di delegificazione. Si considerino, ad esempio, la legge 59/1997 che stabilisce, nell’ art. 21 comma 13, che con effetto dalla data di entrata in vigore delle norme regolamentari sono abrogate le disposizioni vigenti con essa incompatibili, la cui ricognizione è affidata ai regolamenti stessi.

Ed ancora la legge 127/1997 che, nell’art. 1 comma 2, prevede che dalla data di entrata in vigore delle norme regolamentari sono abrogate le disposizioni vigenti, anche di legge, con esse incompatibili.

 

 

3.6. DEROGHE E VARIABILI AGGIUNTIVE ALLE PRESCRIZIONI DELL’ ART. 17 COMMA 2 L. N. 400 DEL 1988.

 

 

3.6.1. LE DELEGIFICAZIONI CONTENUTE IN DECRETI LEGGE ED IN DECRETI LEGISLATIVI.

 

Non mancano esempi di deroghe o di variabili aggiuntive ad uno o più requisiti procedimentali di cui all’art. 17 della l. n. 400/1988, previste da singole norme di abilitazione all’esercizio del potere regolamentare.

Tale fenomeno evidenzia il problema più generale della derogabilità della disciplina posta dall’ art. 17 da parte di leggi successive; derogabilità che non sembra esclusa, dato che a tale norma non è riconosciuta dalla prassi normativa e dalla giurisprudenza una particolare forza o efficacia né una particolare resistenza rispetto a successivi interventi del legislatore.

Non hanno quindi trovato alcun seguito quelle ipotesi dottrinali secondo le quali le disposizioni relative ai poteri normativi del Governo nella l. n. 400/1988 si imporrebbero sulle leggi successive in quanto fonti sulla produzione ovvero in quanto norme contenute in una legge generale finalizzata a disciplinare il complessivo esercizio delle funzioni del Governo.

Analizzando ora più specificatamente l’art. 17 comma 2 L. 400/1988, che regola il procedimento di delegificazione, ci si accorge come questa normativa sia stata quasi sempre destinata a non essere rispettata in alcuni dei suoi requisiti.

Come precedentemente esposto nel lavoro, le leggi di delegificazione evidenziano un’assoluta genericità dell’oggetto, accompagnata dalla carenza delle norme generali regolatrici della materia e dell’indicazione delle norme abrogate dall’entrata in vigore del regolamento.

Ma le deviazioni rispetto all’ art. 17 comma 2 l. n. 400 del 1988 non si fermano a queste già denunciate.

Infatti, anche nel più recente periodo si registrano numerosi casi di delegificazioni contenute in decreti legge ed in decreti legislativi.

A questo proposito, si deve ritenere che un decreto legge non possa autorizzare l’esercizio del potere regolamentare perché le relative norme di abilitazione non potrebbero certe dirsi norme di immediata applicazione, ancorate alla sussistenza dei casi straordinari di necessità e urgenza previsti dall’ art. 77 della Costituzione.

Nel caso poi di un decreto legge che autorizzi una delegificazione, un ulteriore motivo di illegittimità costituzionale deriva dal fatto che esso elimina la necessaria alternanza tra Parlamento e Governo che l’art. 17 comma 2 L. 400/88 sembra presupporre.

Inoltre, sono evidenti, anche per la certezza del diritto, i rischi derivanti dalla decadenza del decreto legge; decadenza che, in forza dell’ art. 77 Cost., determina la caducazione del regolamento.

Tuttavia, tale impostazione è del tutto disattesa dalla prassi che evidenzia alcuni esempi di regolamenti fondati su di essi e pubblicati prima della legge di conversione.

Tale prassi, inoltre, è stata legittimata in più occasioni dal Consiglio di Stato.

In un parere, relativo ad uno schema di regolamento fondato su un decreto legge, si legge che l’adozione di un regolamento per l’attuazione delle disposizioni di un decreto legge non ancora convertito non è, di per sé, esclusa dalle previsioni della carta costituzionale.

L’impostazione del Consiglio di Stato appare assai discutibile perché l’attuazione di un processo di delegificazione è un fenomeno che, per sua natura, contrasta con il carattere immediatamente applicativo che dovrebbe caratterizzare le norme del decreto legge.

La prassi conferma poi i problemi che derivano dalla decadenza dei decreti legge.

Così è da dirsi per il D.M. interno 8 maggio 1996 n. 348, regolamento relativo all’espletamento del concorso per l’idoneità a partecipare ai concorsi per titoli per singole sedi di segreteria generale di 2ª classe, pubblicato il giorno successivo alla decadenza del decreto legge n. 235 del 29 aprile 1996 per decorso del termine dei sessanta giorni.

Ancora più curiosamente, il D.P.R. 31 luglio 1996 n. 526, regolamento recante norme per il funzionamento della Scuola centrale tributaria, riporta nel preambolo quale norma di abilitazione, si tratta di un regolamento di delegificazione, un decreto legge avente una data successiva a quella del regolamento. In questo caso, il regolamento, nato nella vigenza di un precedente decreto legge, nel frattempo decaduto e successivamente reiterato in un testo identico, rinviene formalmente in un atto intervenuto dopo la sua emanazione ma prima della sua pubblicazione. Questo, anche se forse non è motivo di illegittimità, di certo testimonia gli inconvenienti che derivano dalla pubblicazione di un regolamento dipendente da una fonte precaria quale il decreto legge.

Per quanto riguarda i decreti legislativi, la dottrina maggioritaria ritiene che possano contenere norme di delegificazione a condizione che esse siano prefigurate dalla legge di delegazione.

Tuttavia, nella prassi quasi mai le leggi di delegazione autorizzano successive delegificazioni nei decreti legislativi.

Ciò è ancora più grave se si considera che nel recente periodo sta emergendo un fenomeno nuovo, che riguarda in primis le delegificazioni previste in decreti legislativi: ci si riferisce alle molte delegificazioni di materie disciplinate per la prima volta dai decreti legislativi stessi. In tal modo, tale legificazione assume un carattere precario, dato che le relative materie sono destinate a trovare la loro disciplina in sede regolamentare; anche in questo caso, tali norme di delegificazione non appaiono conformi allo schema dell’ art. 17 comma 2 L. n. 400/1988 rinunciando a porre le norme generali regolatrici della materia e l’indicazione delle norme abrogate.

A tali rilievi se ne aggiunge uno ulteriore, ovvero che tali delegificazioni vanificano in sostanza il limite dell’istantaneità della delega legislativa, con una tecnica che, senza alcuna autorizzazione parlamentare, è finalizzata all’appropriazione della materia da parte del Governo.

 

 

 

 

 

5.6.2.  IL FENOMENO DEI REGOLAMENTI AVENTI NATURA MISTA: DI DELEGIFICAZIONE E DI ATTUAZIONE-INTEGRAZIONE.

 

Il fenomeno dei regolamenti aventi una natura mista, ovvero in parte di attuazione-integrazione, in parte di delegificazione, è assai significativo ma anche molto problematico.

Infatti, mentre le disposizioni delegificanti, nel rispetto delle norme generali regolatrici della materia, sono abilitate a sostituirsi alle preesistenti disposizioni legislative in materia, le disposizioni attuative ed integrative sono sottoposte sia alla legge di abilitazione, sia a tutte le altre eventuali norme primarie in materia.

Quindi, per consentire un effettivo sindacato di legittimità su tali regolamenti sarebbe necessario che le norme di abilitazione individuassero con chiarezza i profili di delegificazione rispetto a quelli di mera attuazione. Ciò nella prassi non sempre avviene.

A tal proposito si può ricordare l’ art. 1 comma 2 della legge 10 dicembre 1997, n. 425, che autorizza una delegificazione in materia di disciplina degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, nel rispetto delle norme generali di cui agli articoli da 2 a 6 della stessa legge. Gran parte della disciplina che dovrebbe essere rimessa al regolamento è in realtà rinvenibile nella stessa l. n. 425/1997, in quanto gli articoli da 2 a 6 contengono norme tutt’altro che generali, come invece affermato dall’ art. 1 comma 2.

 

 

3.6.3. LE DELEGIFICAZIONI APPARENTI.

 

Non mancano esempi di delegificazioni apparenti, ovvero di norme di delegificazione che, pur richiamandosi espressamente all’ art. 17 comma 2 L. 400/1988, vanno a disciplinare ambiti materiali previamente non legificati.

Ciò può verificarsi fondamentalmente in due casi: o quando una norma primaria di delegificazione interviene in una materia prima non legificata, o quando la delegificazione è chiamata a disciplinare una materia che già era regolata a livello secondario.

Un esempio del primo tipo è costituito dal D.P.R. 16 settembre 1996 n. 570, regolamento per la determinazione dei criteri in base ai quali la contabilità ordinaria è considerata inattendibile, relativamente agli esercenti attività d’impresa, arti e professione, che è abilitato dall’ art. 3 comma 181 della legge 28 dicembre 1995 n. 549 a disciplinare una materia non regolata in precedenza da fonti primarie.

Un esempio del secondo tipo è invece costituito dall’art. 3 comma 137 della legge 23 dicembre 1996 n. 662, che autorizza il Governo ad emanare un regolamento concernente la semplificazione delle annotazioni da apporre sulla documentazione relativa agli acquisti di carburante per autotrazione di cui all’ art. 2 della l. n. 21 febbraio 1997 n. 31. E’ paradossale che la legge abbia autorizzato la delegificazione di una materia che già era disciplinata sostanzialmente nel D.M. finanze 7 giugno 1977: in tal modo, il D.P.R. 10 novembre 1997 n. 444, si limita a riprodurre il decreto ministeriale sopra ricordato, realizzando così un sostanziale innalzamento del livello normativo di disciplina della materia.

 

 

3.6.4. LE DELEGIFICAZIONI  IN FAVORE DI REGOLAMENTI MINISTERIALI.

 

Sono invece numerosi gli esempi di norme primarie che abilitano regolamenti ministeriali delegificati.

Si tratta di un fenomeno dubbio sul piano della legittimità costituzionale, in quanto la capacità di incidere su preesistenti norme primarie dovrebbe implicare la responsabilità politica dell’intero Governo, che si esprime attraverso l’adozione di un regolamento governativo, emanato in forma di decreto del Presidente della Repubblica.

Nonostante ciò, non sono infrequenti norme legislative che abilitano regolamenti ministeriali non già a sostituirsi ad una o più norme primarie ma addirittura ad interi testi legislativi.

Così è a dirsi per l’art. 18 della legge 24 giugno 1977 n. 196 che autorizza un regolamento in materia di tirocini formativi e di orientamento professionale, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui alla lett. da a) a i) dello stesso articolo, tra le quali si menziona espressamente “abrogazione, ove occorra, delle norme vigenti”. Come si vede, al regolamento ministeriale è in questo caso demandata la disciplina di un’intera materia con uno schema che ricorda le norme di delegificazione più importanti.

Similmente, l’art. 5 comma 7 della legge 7 agosto 1997 n. 266 demanda ad un regolamento del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica la riforma della disciplina del programma nazionale di ricerche aerospaziali e della CIRA S.p.a.; l’ultimo periodo della stessa norma prevede che a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento, la legge n. 184 del 1989 è abrogata.

 

 

3.6.5. I CASI DI INTERFERENZE TRA PIU’ LEGGI DI DELEGIFICAZIONE.

 

La politica di delegificazione perseguita dal Parlamento e dal Governo dà luogo talvolta a sovrapposizioni e ad interferenze che minano la razionalità del processo.

Così si può dire per la disciplina delle modalità di elezione dei componenti del Consiglio universitario nazionale che l’art. 10 comma 6 della legge 19 novembre 1990 n. 341 demandava ad un regolamento governativo, delegificando  così la materia. Il regolamento è intervenuto con il D.P.R. 1 febbraio 1996 n. 167, ma tuttavia, ad appena un anno di distanza, l’ art. 17 comma 106 della legge 127/1997 ha demandato la materia ad un regolamento ministeriale , il D.M. università 21 luglio 1997 n. 278.

Un altro esempio di successione di delegificazioni è costituito dalla materia dell’acquisto di immobili e di accettazioni di donazioni, eredità e legati di cui all’ art. 17 c.c. che è stata delegificata in forza dell’ art. 20 l. n. 59/1997; successivamente l’ art. 17 in esame è stato meramente abrogato in forza dell’art. 13 della legge 127/1997.

4. L’ INTERFERENZA DELLA DELEGIFICAZIONE CON LE COMPETENZE DELLE REGIONI.

 

 

L’ ampliamento degli spazi di intervento regolamentare ha fatto registrare un ulteriore aspetto di notevole rilevanza: l’ intrecciarsi della disciplina regolamentare con le competenze regionali.

L’analisi di questa questione deve prendere in considerazione quella che è stata la più recente evoluzione storica della problematica, in particolare considerando il periodo anteriore e posteriore alla riforma del titolo V della Costituzione.

Al riguardo va segnalato che la Corte Costituzionale ha svolto, e svolge, un ruolo importante su questa tema.

La disciplina costituzionale del 2001, che ha modificato il titolo V della Costituzione, appare fortemente innovativa laddove configura, sotto il profilo dell’ambito materiale di competenza, la potestà regolamentare statale come competenza materialmente riservata, specializzata e limitata, mentre quella regionale assume carattere residuale.

In questa ottica l’impostazione accolta sembra configurare come assoluta l’esclusione dei regolamenti statali in materie di competenza regionale. Ora c’è da chiedersi se siano immaginabili ipotesi di deroga alla apparentemente rigida delimitazione della competenza regolamentare statale ad opera dell’art. 117 comma 6.

In tema di delegificazione va ripresa la previsione di cui all’art. 20 comma 2, testo originario della legge 59/1997. Quest’ultima disposizione, nella parte in cui prevede che i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la Regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima, è oggetto di interpretazione adeguatrice nella sentenza n. 376 del 2002 della Corte Costituzionale, attraverso un percorso argomentativo che non sembra riproducibile in riferimento al nuovo parametro costituzionale.

La Corte ha infatti ritenuto tale disciplina non in contrasto con la Costituzione, ribadendo posizioni prese anche in precedenti sentenze anteriori alla riforma. Nella sentenza, infatti, la Corte ha osservato che l’operatività dei regolamenti delegati in materie di competenza delle Regioni fino all’entrata in vigore delle competenti fonti regionali è giustificata dalla circostanza di essere tali regolamenti statali delegati destinati a sostituire una precedente disciplina legislativa statale, legittimamente operante in materie attribuite alla competenza delle Regioni in quanto cedevole, nella logica del principio di preferenza della legge regionale successiva competente per materia.

Tale argomentazione muove dall’esplicita premessa dell’assunzione a parametro del vecchio titolo V. I commentatori, hanno osservato che nulla sembra far ritenere la Corte incline a riprodurre tale schema argomentativo nel regime di più netta separazione di competenze designato della legge di revisione del 2001.

Il Consiglio di Stato, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ha rilasciato un parere molto importante sull’argomento.

Il parere è quello del 17 ottobre 2002 n. 5 in cui l’ Adunanza Generale, dopo aver chiarito che lo Stato non è più individuato quale legislatore generale a fronte della competenza regionale su materie enumerate, ma è titolare oggi di competenze elencate a fronte del conferimento alle Regioni di una riserva generale di legislazione, residuale rispetto alla competenza esclusiva dello Stato e a quella concorrente delle Regioni stesse, afferma  che deve ritenersi estinto il potere regolamentare attribuito allo Stato su materie che non sono più di sua spettanza. Tale potere non permane infatti allo Stato, poiché con l’entrata in vigore della nuova normativa costituzionale è stata trasferita la titolarità stessa del potere, e l’eventuale esercizio da parte dello Stato implicherebbe la invasione di un campo ormai riservato alla competenza regionale.

 

Anteriormente alla riforma, la prospettiva principale dalla quale muoveva la Corte Costituzionale nella propria giurisprudenza era quella di escludere la possibilità che i regolamenti di delegificazione potessero disciplinare materie di competenza regionale, dato che lo strumento della delegificazione previsto dall’ art. 17 l. n. 400/1988 non poteva operare per fonti di diversa natura, tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia.

Sulla questione suscitava più di una perplessità la legge 59/1997, dal momento che in tale legge venivano, e vengono, contemplati un numero notevole di procedimenti che finiscono per interferire con il livello regionale.

I regolamenti in materia delegificata non potevano limitare le competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni e ciò non poteva essere neanche previsto dalla legge che autorizzava la delegificazione.

La Corte Costituzionale, come sopra accennato, aveva sempre ritenuto che fosse di tutta evidenza che una legge non potesse modificare il riparto di competenze fra lo Stato e le Regioni e che l’oggetto della delegificazione, dovesse essere circoscritto specificamente alle norme di competenza statale. Pertanto, aveva sostenuto la Corte, la semplificazione del procedimento amministrativo non poteva toccare le competenze delle Regioni perché i regolamenti, per il loro rango, non erano abilitati a modificare le competenze sostanziali né i presupposti e i requisiti preordinati all’emanazione dei provvedimenti amministrativi cui i procedimenti si riferivano.

Veniva così ribadito che i regolamenti in materia delegificata dovevano rispettare il principio di legalità sostanziale e che, se così non facevano, risultavano illegittimi per mancanza di valida base legislativa a loro giustificazione. Doveva essere inoltre ribadito che spettava alle Regioni la regolamentazione dei procedimenti amministrativi nell’ambito della competenza in materia di ordinamento degli uffici, quale espressione della potestà regionale di autorganizzazione. In questa prospettiva, si doveva riaffermare la naturale connessione tra la disciplina del procedimento amministrativo e le materie attribuite alle Regioni, chiarendo che la possibilità di porre tale disciplina regionale non poteva, in alcun modo, essere vanificata, o anche semplicemente limitata, da un intervento regolamentare statale.

Lasciava perplessi, quindi, la modifica apportata al comma 2 dell’ art. 20 l. n. 59/1997 dalla l. n. 340/2000; in particolare, secondo l’art.1 comma 4, nelle materie elencate nella vecchia formulazione dell’ art. 117, comma 1 Cost., i regolamenti di delegificazione trovavano, e trovano, applicazione solo fino a quando la Regione non abbia provveduto a disciplinare autonomamente la materia medesima.

Il cambiamento di prospettiva appariva evidente.

In precedenza il Parlamento interveniva soltanto indicando i principi ai quali le Regioni si dovevano attenere per operare la semplificazione dei procedimenti, e, successivamente, con la prima legge di semplificazione attribuiva questo compito al Governo. Con la nuova modifica, invece, il legislatore autorizzava l’esecutivo a produrre direttamente la semplificazione mediante regolamenti di delegificazione. Tali regolamenti intervenivano in materie di competenza regionale ed avevano la caratteristica di essere destinati a disciplinare la materia solo fin quando il legislatore regionale non averebbe inteso provvedere a dettare una nuova disciplina.

Alla luce di quanto appena affermato, la soluzione adottata dal legislatore per risolvere i problemi posti dalla semplificazione dei procedimenti amministrativi in ambito regionale suscitava non pochi dubbi.

Si poteva dubitare, infatti, della stessa ammissibilità dei regolamenti così adottati. Tali atti, seppur destinati ad essere sostituiti dalla normativa dettata dalle singole Regioni, intervenivano a disciplinare una materia che la Costituzione attribuiva alla competenza regionale.

A parziale giustificazione della scelta operata dal legislatore, bisogna ricordare che la legge si muoveva nel solco tracciato da una giurisprudenza della Corte Costituzionale, giurisprudenza che però non poteva essere considerata espressione di un orientamento consolidato. La posizione del giudice delle leggi sul tema più generale dell’ammissibilità dei regolamenti in materia regionale appariva, infatti, tutt’altro che costante e non facilmente prevedibile.

Uno degli ultimi atti di questa ondivaga giurisprudenza della Corte era rappresentato dalla sentenza n. 425/1999 che risolveva alcuni conflitti di attribuzione sollevati dalla Regione Emilia – Romagna e dalle due province autonome di Trento e Bolzano a seguito dell’emanazione di un regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE, che concerneva la conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche.

In questa pronuncia la Corte sosteneva che sotto il profilo delle competenze regionali e provinciali, l’attuazione regolamentare era ammissibile in quanto le norme statali sono cedevoli di fronte a diverse scelte normative regionali e provinciali.

Secondo il giudice costituzionale, quindi, le competenze regionali sarebbero state salvaguardate dal carattere temporaneo dell’ invasione di competenza, che sarebbe stata destinata ad avere termine nel momento in cui le Regioni avessero posto in essere una disciplina della materia. La Corte motivava la sua decisione ricorrendo alla necessità di garantire un equilibrio il più possibile rispettoso delle esigenze costituzionali poste dalla pluralità delle competenze.

Con questo passe-partout, il giudice costituzionale arrivava a capovolgere una sua precedente presa di posizione sul tema, ci si riferisce alla sentenza n. 408/1998 in cui la Corte si era trovata, per la prima volta, a sindacare la legittimità della riforma realizzata con la prima legge Bassanini. In questa pronuncia, il giudice aveva affermato che le competenze regionali non potevano essere invase da fonti secondarie statali, poiché tra i due tipi di fonti doveva sussistere una vera e propria separazione di competenza.

Il mutamento di rotta della Corte non doveva sorprendere poiché la giurisprudenza in materia, come si è detto sopra, si era sempre dimostrata oscillante tra due posizioni diametralmente opposte.

Il giudice costituzionale, con nutrite argomentazioni, aveva infatti sostenuto sia l’ammissibilità dei regolamenti in materia regionale sia la loro inammissibilità.

L’ammissibilità era stata motivata sulla base di una presunta indifferenza tra legge e regolamento nel momento in cui tali atti dettano la disciplina di dettaglio; poiché, se si ammetteva che il legislatore Statale poteva arrivare a disciplinare, oltre ai principi fondamentali, anche la loro necessaria temporanea attuazione, appariva indifferente lo strumento che il legislatore sceglieva per raggiungere lo scopo. In questa prospettiva risultava determinante, per garantire le competenze regionali, solo ed esclusivamente il carattere cedevole della normativa posta dai regolamenti.

L’altra posizione, ossia quella che considerava illegittimo un intervento dell’esecutivo in materie di competenza regionale, era stata ricondotta, invece, ad una vera e propria separazione di competenze tra fonti secondarie statali e fonti regionali tale da porre le Regioni al riparo delle interferenze dell’ esecutivo centrale. La Corte era arrivata a sostenere la netta separazione di competenze basandosi sia sulle regole costituzionali relative all’ordine delle fonti, sia su quanto stabilito dall’ art. 17 l. n. 400/1988 che, al comma 1, prevede che i regolamenti governativi di attuazione e integrazione non possono intervenire nelle materie riservate alla competenza regionale. Tale disposizione era espressione di un principio generale che regolava i rapporti tra fonti secondarie statali e leggi regionali che va al di là del tipo di regolamento previsto. Un’ulteriore ragione di inammissibilità riguardava poi in particolare i regolamenti di delegificazione. La Corte aveva sostenuto, infatti, che la delegificazione non poteva operare tra fonti di diversa natura tra le quali vi era un rapporto di competenza e non di gerarchia.

Anche la dottrina sembrava attestarsi sulle due opposte posizioni che il giudice delle leggi aveva, negli anni, fatto proprie.

Quindi, accanto a quegli autori che sostenevano la separazione delle competenze nei rapporti fra fonti statali secondarie e leggi regionali, vi erano anche coloro che ritenevano non vi fosse alcuna ragione di distinguere tra leggi statali di dettaglio e regolamenti cedevoli aventi la stessa funzione. Le competenze regionali sarebbero state salvaguardate dal carattere cedevole delle norme dettate nei regolamenti.

La Corte dei conti sulla questione, a differenza della Corte Costituzionale e degli Autori, era venuta ad assumere nel corso degli anni una decisa posizione.

La Corte dei conti aveva sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale su leggi che autorizzavano regolamenti di delegificazione. In particolare, aveva censurato tali leggi poiché attribuivano a regolamenti di delegificazione, il compito di dettare i principi fondamentali cui le Regioni si dovevano attenere per disciplinare la materia. In questo modo, secondo l’organo di controllo, i regolamenti andavano ad incidere in una materia in cui l’ art. 117 Cost. stabilisce una riserva assoluta di legge.

Anche il Consiglio di Stato aveva affrontato quest’ultimo argomento, rilasciando pareri, in particolare, sulle modalità di esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento da parte dello Stato.

L’ organo consultivo aveva precisato che andava esclusa l’ammissibilità di una funzione statale di indirizzo e coordinamento che non si fosse espressa nelle forme contemplate dall’ art. 3 della L. 382/1975, alla stregua del quale occorreva la legge o l’atto avente forza di legge oppure la deliberazione del Consiglio dei Ministri o ancora, con delega del Consiglio dei Ministri, la delibera del C.I.P.E. o del Presidente del Consiglio dei Ministri insieme al Ministro competente per affari particolari. Quindi, da ciò, si poteva seriamente dubitare che il regolamento potesse correttamente configurarsi come atto di indirizzo e coordinamento.

La scelta di affidare la provvisoria attuazione della semplificazione in ambito regionale ai regolamenti di delegificazione poneva un ulteriore problema. La disciplina, così come era posta, non chiariva il rapporto che doveva sussistere  tra gli atti dell’esecutivo e le leggi regionali che dovevano disciplinare la materia. La questione in sostanza si poneva in questi termini: le leggi regionali di dettaglio potevano essere adottate prima che fossero intervenuti i regolamenti di delegificazione? Aver attribuito un carattere cedevole ai regolamenti non valeva, infatti, a chiarire se la potestà legislativa regionale potesse essere esercitata fin dal momento dell’entrata in vigore delle leggi di delegificazione e non a seguito dell’emanazione dei regolamenti statali di delegificazione.

La risposta più ovvia che sarebbe venuta da dare alla questione era che, nel caso in cui una legge regionale di dettaglio fosse stata adottata prima del regolamento, secondo la normale ricostruzione dei rapporti tra leggi statali dispositive e leggi regionali, tale legge sarebbe stata preferita.

Una soluzione del genere sarebbe sembrata perfettamente compatibile con il meccanismo che regolava i rapporti tra legge statale di dettaglio e legge regionale ugualmente di dettaglio cui il legislatore sembrava aver fatto riferimento per le materie delegate alla competenza regionale dalla Carta costituzionale.

A ben vedere, però tale soluzione non appariva conforme al modo di operare proprio della delegificazione. 

Infatti, secondo la disciplina prevista dalla l. n. 62/1953, la c.d. legge Scelba, il legislatore regionale doveva adeguare la legislazione regionale ai nuovi principi fondamentali dettati dal legislatore statale, ma nel caso in cui nella materia fosse stata disposta una delegificazione, sulla base delle prescrizioni dettate dall’ art. 17 comma 2 l. n. 400/1988, l’abrogazione delle norme che prima dettavano la disciplina della materia non sarebbe intervenuta fin quando non fosse stato adottato il regolamento. Dunque, fin quando non fossero intervenuti i regolamenti di delegificazione sarebbe sembrato proprio che le Regioni non avessero potuto dettare la nuova disciplina di dettaglio, perché ancora nulla, nella legislazione statale, si era modificato. Altrimenti , si sarebbe verificata la situazione paradossale in cui le Regioni si sarebbero adeguate a principi fondamentali che non risultavano ancora modificati. Quindi, i regolamenti di delegificazione dovevano necessariamente essere adottati perché le Regioni potessero intervenire in materia.

Anche se l’ ipotesi prospettata risultava molto difficile da verificarsi, la questione posta era utile per chiarire meglio i rapporti che si sarebbero venuti a creare tra regolamenti statali di delegificazione e leggi regionali.

Infatti, l’ammissibilità dei regolamenti governativi in materie regionali si era sempre basata, quando era stata riconosciuta, sul fatto che i regolamenti cedevoli così come la legislazione di dettaglio statale non avessero leso le competenze regionali. Tutto ciò sul presupposto che quello che doveva essere tutelato non era tanto il riparto di competenze astrattamente fissato dalla Costituzione, quanto le competenze regionali esercitate in concreto. Quando il legislatore ricorreva alla delegificazione, però, quella che veniva lesa risultava proprio la concreta competenza delle Regioni ad adottare le norme di dettaglio. Anzi, un’eventuale inerzia del Governo avrebbe potuto bloccare ogni successivo intervento regionale. Tale ulteriore elemento di complicazione dei rapporti tra fonti secondarie statali e fonti regionali sembrava avvalorare ancora di più la tesi della inammissibilità dei regolamenti governativi in materia regionale.

Ad una diversa ricostruzione del complesso meccanismo creato dal legislatore si sarebbe potuto giungere, forse, sulla base di quanto prevedeva, e prevede, il comma 7 dell’ art. 20 l. n. 59/1997, comma che, già prima che l’art. 20 venisse novellato, era apparso di difficile interpretazione. In particolare, questo comma prevede che le Regioni a statuto ordinario regolino le materie disciplinate dai commi da 1 a 6 nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico. Tali disposizioni operano direttamente nei riguardi delle Regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le Regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono ad adeguare i rispettivi ordinamenti alle norme fondamentali contenute nella legge medesima.

Questa disposizione avrebbe potuto essere intesa come una volontà del legislatore di considerare gli stessi principi della delegificazione a livello statale anche come principi fondamentali della materia immediatamente vincolanti per la Regione. La duplice valenza riconosciuta ai principi avrebbe permesso di separare quindi le vicende dei regolamenti di delegificazione dalla semplificazione a livello regionale. In tal modo le Regioni avrebbero potuto porre le norme di dettaglio senza attendere l’adozione dei regolamenti.

Anche alla luce di questa ricostruzione, il meccanismo di semplificazione a livello regionale rimaneva comunque farraginoso, perché prevedeva una sequenza,sia pure eventuale, di passaggi che sembravano tra loro in contraddizione. Infatti, se il regolamento di delegificazione fosse intervenuto prima che le Regioni avessero dettato la disciplina di dettaglio si sarebbe prodotta la situazione paradossale di una materia delegificata a livello statale che era destinata a essere rilegificata a livello regionale.

L’adesione all’una o all’altra interpretazione del complesso puzzle creato dal legislatore, non sembrava far venir meno la convinzione che la semplificazione a livello regionale si sarebbe potuta realizzare percorrendo una via diversa. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5. CONCLUSIONE.

 

Da quanto detto, si vede bene come la delegificazione costituisca un punto nodale del nostro sistema normativo e politico.

Quello che si è detto sulla limitata incidenza della legge n. 400 del 1988 ed i dubbi manifestati sulla conseguenza delle sue previsioni conducono ad indicare la necessità di elaborare un diverso meccanismo per ottenere un efficace processo di delegificazione, pur con tutti i limiti che il sistema ha manifestato.

A tal fine la conclusione migliore appare  quella che ha fissato in cinque punti le condizioni essenziali per addivenire ad un corretto processo di delegificazione. Essi sono:

 

A)   necessaria ricognizione delle fonti normative, legali ed extra-ordinarie;

B)   valutazione sulla compatibilità di alcune fonti con la Costituzione;

C)   delineazione del real ruolo della legge;

D)  rispetto dell’autonomia normativa di soggetti pubblici e privati;

E)   corretta ripartizione della potestà legislativa fra Stato e Regione.

 

Tenendo conto di queste indicazioni ritengo che il modello possa essere fruttuosamente delineato cercando di cogliere:

 

A)   il fine da conseguire;

B)   il criterio da osservare;

C)   la strumentazione cui fare ricorso, coerentemente con il fine ed il criterio e per conferire effettività alla soluzione.

 

Il fine prioritario deve essere  ravvisato in una più snella decisione normativa, quale dovrebbe ottenersi nella sede governativa, una volta, però, che si siano individuati settori di intervento in cui meno intenso è quel processo di integrazione politica che può essere assunto quale elemento di identificazione del circuito della normazione primaria immediatamente subcostituzionale e, come tale, da ricondurre sempre nell’alveo dell’organo rappresentativo e del procedimento di formazione della legge.

Emerge, quindi, in modo più concreto il criterio giuridico cui fare ricorso come guida ad un processo di delegificazione nell’individuare gli ambiti materiali.

Come è chiaro, il criterio da seguire si salda con la strumentazione cui fare ricorso.

In tale prospettiva affiora la necessità dell’intervento di una legge costituzionale che, però, non dovrebbe essere quella di delegificazione.

Questa, infatti, sarebbe un elemento di eccessivo irrigidimento del sistema, stante la difficoltà nel fissare, in maniera assolutamente rigorosa e con validità nel tempo, i settori materiali dell’intervento regolamentare sostitutivo della legge.

Il riferimento alla legge costituzionale è importante perché rappresenta il sistema per ottenere il risultato di superare la variabilità del grado di disciplina ed impedire che la materia sia nuovamente legificata in via incidentale.

Si dovrebbe procedere in una duplice direzione:

 

A)   individuare, in maniera ampia, i settori materiali cui la delegificazione è ammissibile, facendo in tal modo prevedere un criterio giuridico nella selezione;

B)    disciplinare una legge tipica di delegificazione contenente i principi espressamente modificabili soltanto con altra legge tipica che intervenisse a modificare quei meccanismi.

 

In questo modo si potrebbero, probabilmente, eliminare molti dei problemi che affliggono il settore.

 

 

 

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GIURISPRUDENZA

 

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CORTE COSTITUZIONALE

 

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 Tesi : La Delegificazione.    di Armando Catarisano

a cura di Maria Richichi